Le farfalle |
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STORIA DI CINQUECENTO VANESSE [Come dal germe] Come dal germe ai suoi perfetti giorni giunga una schiera di Vanesse; quali speranze buone e quali fantasie la crëatura per volar su nata susciti in cuore di colui che sogna col suo lento mutare e trasmutare, la maraviglia delle opposte maschere, la varia grazia delle varie specie, in versi canterò... Non vi par egli, non vi par egli d'essere in Arcadia? Dolce Parrasio! Dileguati giorni dell'Accademia, quando il Mascheroni con sottile argomento di metalli le risentite rane interrogava. Le querule presaghe della pioggia (altro presagio al secolo vicino!) stavano tronche il collo. Con sagace man le immolava vittime a Minerva su l'ara del saper l'abate illustre, e se all'argentea benda altra di stagno dalle vicine carni al lembo estremo appressava, le vittime risorte vibravan tutte con tremor frequente. L'orobia pastorella impallidiva sotto le fresche rose del belletto, meravigliando alla virtù che cieca passa per interposti umidi tratti dal vile stagno al ricco argento e torna da questo a quello con perenne giro. Di sua perplessità - dubito forte - si giovava l'abate bergamasco per cingere lo snello guardinfante e baciare furtivo (auspice Volta!) tra l'orecchio e la vasta chioma nivea la dotta pastorella sbigottita. Ma voi, sorella, non temete agguati dal fratello salvatico in odore di santità? Con certo ritüale arcadico (per gioco!) e bello stile (per gioco!) altosonante, come s'offre nova un'essenza in un cristallo arcaico, queste pagine v'offro, ove s'aduna non la galanteria settecentesca, ma il superstite amore adolescente per l'animato fiore senza stelo; offro al vostro tormento il mio tormento, vano spasimo oscuro d'esser vivi, a voi di me più tormentata, a voi che la sete d'esistere conduce per sempre false imagini di bene. Forse lo stanco spirito moderno altro bene non ha che rifugiarsi in poche forme prime, interrogando, meditando, adorando; altra salute non ha che nella cerchia disegnata intorno dall'assenza volontaria, come la cerchia disegnata in terra dal ramoscello dell'incantatore: magico segno che respinge tutte e le lusinghe e le insensate cure; solo rifugio dove il cuore spento vibri fraterno e riconosca l'Uomo, ché più non vede l'esemplare astratto, ma la specie universa eletta al regno del mondo. E come il Dio d'antichi tempi appariva all'asceta d'altri tempi, così l'asceta d'oggi senza Dio sente nel cuor pacificato un bene sommo, una grazia nova illuminante, lo Spirito immanente, l'acqua viva, e si disseta più che alle sorgenti che mai non troverete, o sitibonda... Queste, che dico, dissi a voi parole or è già molto, camminando a paro per una landa sconsolata e voi, mal soffrendo il velen dell'argomento, con la mano inguantata il ciuffo a sommo coglieste d'un'ortica e mi premeste sulla gota la fronda folgorante, tortuosamente. Non mi punse quella che più forte s'accosta e men ci punge; e nel gesto passare vidi un cumulo minuscolo di germi di Vanesse sulla villosa nervatura e forse dal vostro gesto, ancor agropungente, nato è il poema, poi che sul mistero del piccolo tesoro accumulato, già in quell'istante, con parole sciolte taluna esposi delle meraviglie che più tardi nel mio silenzio attento passo passo tentai chiudere in versi. DEI BRUCHI Redimita di fronde agropungenti - ahi! non d'alloro - la mia Musa canta. Alti cespi d'ortica alzano intorno alle mie carte un cerchio folgorante, mensa ed albergo ai numerosi alunni. Dalle schiuse finestre entra l'Estate; brilla sui campi, sul tripudio verde, puro l'abisso cerulo del cielo. A me dintorno un crepitìo di pioggia fanno le lime assidue infinite degli alunni famelici. Da tempo convivo solo, con la mia brigata. Animarsi dal cumulo dei semi li vidi quasi miglio germinante, piccoli, inermi, sotto tende lievi, in groppo avvinti, trarre i giorni primi. Volsero i giorni, crebbero gli alunni; per ben tre volte usciti di se stessi tre volte tanto apparvero voraci. Or fatti pesi, flettono le cime della mia selva, ammantano le foglie con loro mole fosca, irta di punte. Inorridite? Nulla v'ha d'orrendo per chi fissa le linee le tinte con occhi nuovi, sempre bene aperti. Meditiamo i villosi prigionieri senza ribrezzo, con pietà fors'anco, se pietà di lor vita oscura e prona non dileguasse la speranza certa: il guiderdone del risveglio alato. Tratto ad inganno un bruco, ecco, abbandona l'ospiti foglie, segue la mia mano: considerate senza abbrividire quanta pose Natura intorno a lui, dotta nei suoi lavori, intima cura! E quanti occhi gli diede a che d'intorno scorger potesse in ogni dove e quante ha per muoversi zampe e varie: alcune squammose adunche forti, zampe vere della farfalla apparitura: alcune brevi aderenti flaccide contrattili: atte al passo del bruco sulle foglie, come ginnasta bene assicurato. Mirabile è la bocca, ordigno armato d'acute lime in gemina ordinanza. Concavo un labbro chiude nell'incavo il margine fogliare che due salde mandibole con moto orrizzontale tagliano a scatto, in guisa di cesoja. Sotto queste maggiori altre minori mandibole triturano le fibre, quattro palpi n'adunano il tritume; tra quelli e queste un foro sericìparo svolge all'aria un sottil filo di seta. Ma piaccia a voi questo cristallo terso all'occhio intento sottoporre, mentre con lama breve, dentro chiara coppa, la necessaria vittima divido. Come in un bosco l'intrecciata massa di rami e ramuscei fende le nubi, così, ma con più bello ordin, vedete quale per lungo dell'aperto dorso va di tremila muscoli la selva: ecco il sangue che scorre i molti vasi di rete in guisa da Natura orditi e le vie mirabili dell'aria ad ogni nodo rinnovate e il cuore come collana multipla che pulsa del corpo in ogni dove e i molti ventri e del dorso la spina in tanti nodi divisa e l'ammirabile del capo figura interïor eccovi aperta. Questo - benché più delicato ordigno offra il bombice industre - è il laberinto misterïoso della seta fusa. Discende il vaso dall'estrema bocca, come fiume che va, poi si biparte; dall'una e l'altra banda i rami pari s'avvolgono ai precordi intimi e dove l'uno si fa maggior pur l'altro è tale; poi, quasi giunti al fin, piegano e al capo ascendono e giù tornano ed ascendono, elaborato alfin recano al labbro l'umor tenace che diventa seta; non altrimenti il sangue dei vulcani s'addensa all'aria in rivoli di lava. Ma, oimè, che vedo? Addormentata quasi, esanimi gli sguardi, con la mano un mal frenate languido sbadiglio! Che più? Si tace il crepitìo di pioggia: i bruchi alunni in vario atteggiamento mi stanno intorno addormentati tutti mirabilmente! Vince Anatomia le droghe oppiate dell'Arabia estrema. Amica sonnacchiosa e perdonate, voi nata al sogno libero e alla grazia, perdonate la Musa pazïente osservatrice. Ben s'addice al lento trasmutare dei bruchi prigionieri; più tardi, al tempo del risveglio alato, anch'essa certo spiegherà nei cieli l'ali del sogno per seguirli a volo. Eccoli intanto, bruchi tuttavia, stinto il velluto, tumefatti i nodi, eretto il capo immobile, le zampe fisse alle foglie da sottili bave, giacersi infermi nella sesta muta. Per tutto un giorno in torpida quiete uno spasimo ignoto li tormenta: essere un altro, uscire di se stessi! Uscire di se stessi! E li vedete or gonfiarsi, or contrarsi, ora dibattersi, or delle membra tremule far arco, fin che sul terzo nodo ecco si fende l'antica spoglia e sul velluto stinto vivida splende la divisa nuova. Ed uno appare in due e due in uno, ma già l'infermo tutto si distorce, come da un casco liberando il capo dal capo antico, dalle antiche zampe le antiche zampe liberando, lento movendo già, lasciandosi alle spalle quegli che fu, come guaina floscia. DELLE CRISALIDI Ma il sesto dì la mia famiglia trovo dispersa tutta lungo le pareti. Come le sacre vittime d'un tempo s'apprestavano degne col digiuno, i bruchi alunni mondano i precordi, ricusano la fronda. È giunta l'ora. Consapevoli quasi del mistero imminente, s'ammusano l'un l'altro, lenti volgendo ad ora ad or la testa, esplorano gli arredi gli scaffali le cimase gli spigoli, un rifugio cercando eccelso come gli stiliti. Cercano in vero il luogo ove celarsi dai nemici del cielo e della terra; quale vigilia torpida li attenda ben sanno e sotto quale spoglia inerte pendula ignuda, senza la custodia del bombice di sua seta fasciato; ché le Diurne mutansi in crisalidi non difese che dalla forma subdola, dalla tinta sfuggente, non armate che di silenzio immobile e d'attesa. Dato è perciò seguire nel mistero i pellegrini della forma. Eletto un rifugio sicuro, il bruco intreccia poche fila in un cumulo, a sostegno, v'infigge i ganci delle zampe estreme e s'abbandona capovolto come l'acrobata al trapezio. Un giorno intero resta pendulo immoto, in doglia grande, fin che si fende a sommo e la crisalide convulsa vibra, si sguaina lenta dalla spoglia villosa che risale, s'aggrinza, cade all'ultimo sussulto. Ogni forma di bruco è dileguata: la crisalide splende, il nuovo mostro inquietante ambigüo diverso da ciò che fu da ciò che dovrà essere! Pendula, immota, senza membra, fusa nel bronzo verde maculato d'oro, cosa rimorta la direste, cosa d'arte, monile antico dissepolto; un minuscolo drago vi ricorda il dorso formidabile di punte, la maschera d'un satiro v'appare nel profilo gibboso e bicornuto. Dove il bruco defunto, la farfalla apparitura? La Natura, scaltra nasconditrice, deviò lo sguardo dell'uomo del ramarro della passera. Ma la farfalla tutta, se badate ben sottilmente, appare a parte a parte in rilievo leggiero: il capo chino tra l'ali ripiegate come bende, l'antenne la proboscide le zampe giustacongiunte al petto. La crisalide ritrae la farfalla mascherata come il coperchio egizio ritraeva le membra della vergine defunta. Ma già - mentre ch'io parlo - i bruchi tutti sono vòlti in crisalidi. Al soffitto agli scaffali al dorso dei volumi famosi, alle cornici delle stampe, financo - irriverenza - al naso adunco, alla mascella scarna del Poeta, ovunque la mia stanza è un scintillare di pendule crisalidi sopite. Guardo e sorrido. E un velo di tristezza mi tiene già gli alunni ripensando che più non sono e loro schiera bruna raccolta intorno alle mie carte quando rinnovavo la selva agropungente e m'era caro il crepitìo di lime dei compagni famelici a seguirne i moti e l'attitudini e ritrarne col pennello e col verso il divenire. Oggi tutto è silenzio di clausura, digiuno, attesa immobile, sgomento di necropoli tetra. Alle pareti ogni defunto è un pendulo monile, ogni monile un'anima che attende l'ora certa del volo. Ed io mi sono quel negromante che nel suo palagio senza fine, in clessidre senza fine, custodisce gli spiriti captivi dei trapassati, degli apparituri. Veramente la mia stanza modesta è la reggia del non essere più, del non essere ancora. E qui la vita sorride alla sorella inconciliabile e i loro volti fanno un volto solo. Un volto solo. Mai la Morte s'ebbe più delicato simbolo di Psiche: psiche ad un tempo anima e farfalla scolpita sulle stele funerarie da gli antichi pensosi del prodigio. Un volto solo... MONOGRAFIA DI VARIE SPECIE Del parnasso Parnassus Apollo Non sente la montagna chi non sente questa farfalla, simbolo dell'Alpi... Segantini pittore fu compagno intimo del Parnasso. Tutta l'arte del maestro non è che la montagna intravista dall'ala trasparente... Voi sorridete, incredula, scorrendo l'ali chiare. Passate sui Papili, le Pieridi, le Coliadi, l'Antocari, cercate invano, sorridendo muta. Ma il vostro riso incredulo s'arresta, sostate appena sopra una farfalla ignota e dite risoluta: - È questa! - Questa e non altra. Tolgo l'esemplare: osservate la grazia! Col Papilio e la Vanessa, è certo la farfalla dei nostri climi più meravigliosa. Ma pure al vostro sguardo di novizia non è questa bellezza singolare? Mentre pensate il volo del Papilio sul trifoglio fiorito e la Vanessa in larghe rote lente sulle ajole, non tollerate il volo del Parnasso in un campo, in un orto, in un giardino: evocate un pendio di rododendri, coronato d'abeti, e di nevai, e la bella farfalla ecco s'adagia sullo scenario, in armonia perfetta. È giusto. Meditate l'ali tonde (frastagli e dentature le sarebbero d'impaccio contro i venti delle alture) meditate quest'ali trasparenti, lastre di ghiaccio lucide all'esterno, nell'interno soffuse di nevischio, gelide in vista tanto che vi sembra di vederle squagliare a poco a poco; spiccano sul candore alcune chiazze vermiglie come fior di rododendro, come stille di sangue sulla neve, cerchiano l'ali zone bigio-nere che tengono del musco e del macigno: il corsaletto è fitto di pelurie bianca, d'argento come il leontopodi e l'antenne le zampe la proboscide n'escono brevi come dalla giubba folta d'un alpigiano freddoloso. La Natura, l'esteta insuperabile, la mima senza pari, volle esprimere la montagna in un essere dell'aria; si giovò della gamma circostante, diede l'ali alla neve ed al ghiacciaio, al macigno al lichene al rododendro; ma da quanti millenni, ma da quali misteri giunse il genïetto alato? In altra età, per certo, quando l'Alpi erano miti come Taprobane, la farfalla aveva l'abito conforme con le felci i palmizi l'orchidee dei nostri monti in quell'età remote. Com'era allora il genïetto? Certo non trasparente, candido, villoso... Voi contemplate, amica, la farfalla infissa da molt'anni. Ben più dolce è meditarla viva nel suo regno. La rivedo con gioia ad ogni estate; sfuggito all'afa cittadina, appena giunto al rifugio sospirato, indago con occhi inquieti lo scenario alpestre: senza l'ospite candida le nevi sarebbero per me senza commento. Ma rade volte scende a valle. Giova attenderla sull'orlo degli abissi, fra gli alti cardi i tassi i rododendri. In quel silenzio primo, intatto come quando non era l'uomo ed il dolore, ecco la bella principessa alpestre! Giunge dall'alto scende con un volo solenne e stanco, noto all'entomologo, s'arresta sulle cuspidi dei cardi, s'adonta di un erebia, d'un virgaurea, suoi commensali sullo stesso fiore; s'avvia, s'innalza, saggia il vento, scende, vibra, si libra, s'equilibra, esplora l'abisso, cade lungo le pareti vertiginose ad ali tese: morta. Dispare, appare sui macigni opposti, dispare sul candore delle spume, appare sopra il verde degli abeti, dispare sul candore dei nevai, appare, spare, minima... Si perde... Parnasso Apollo!... Il genïetto lascia un solco di mistero al suo passaggio. Il volo stanco, ritmico, diverso dall'aliar plebeo delle pieridi, ha un che di malinconico e s'accorda mirabilmente con la gamma chiara dell'alte solitudini montane. E il poeta disteso sull'abisso, col mento chiuso tra le palme, oblia la pagina crudele di sofismi, segue con occhi estatici il Parnasso e bene intende il sorgere dei miti nei primi giorni dell'umanità; pensa una principessa delle nevi volta in farfalla per un malefizio... Della cavolaia Pieris brassicae Se la Vanessa ed il Papilio sono nobili forme alate e dànno immagine d'un cavaliere e d'una principessa, la Pieride comune fa pensare una fantesca od una contadina. È volgare, dal nome alla divisa scialba, dal volo vagabondo al bruco nero-verde, flagello delle ortaglie. Ridotte queste a nuda nervatura, i bruchi vanno su pei muri a mille, fissano le crisalidi alle mensole, ai capitelli, ai pepli delle statue, curïose crisalidi, sorrette alla vita da un filo e non appese, angolari, sfuggevoli, aderenti, concolori così col marmo e il muro che lo sguardo le fissa e non le vede. Se tutte si schiudessero, la Terra sarebbe invasa d'ali senza fine. Ma gran parte ha con sé, già nello stato di bruco, i germi della morte certa. Chi s'aggiri in un orto vede all'opra il Microgastro, piccolo imenottero dall'ali e dall'antenne rivibranti, smilzo, cornuto, negro come un dèmone. Vola, scorre sui bruchi delle Pieridi, inarca, infigge l'ovopositore, immerge nei segmenti della vittima il germe della morte ad ogni assalto. Ad ogni assalto il bruco si contorce, ma quando il Microgastro l'abbandona non sembra risentirsi dell'offesa: cresce, vive coi germi della morte... Vive e i germi si schiudono, le larve del parassita invadono la vittima ignara; ne divorano i tessuti, ma, rette dall'istinto prodigioso, non intaccano gli organi vitali. Il bruco vive ancora, si tramuta sognando il giorno del risveglio alato; ma gli ospiti hanno uccisa la crisalide, la fendono sul dorso e dalla spoglia non la Pieride bianca, ma s'invola uno sciame ronzante d'imenotteri. Come in questa vicenda e in altre molte, la Natura, che i retori vantarono perfetta ed infallibile, si svela stretta parente col pensiero umano! Non divina e perfetta, ma potenza maldestra, spesso incerta, esita, inventa, tenta ritenta elimina corregge. Popola il campo semplice del Tutto d'opposte leggi e d'infiniti errori. Madre cieca e veggente, avara e prodiga, grande meschina, tenera e crudele, per non perder pietà si fa spietata. E quando vede rotta l'armonia riconosce l'errore, vi rimedia con nascite novelle ed ecatombi. Essa accenna alla Vita ed alla Morte; e le custodi appaiono, cancellano, ritracciano la strada ed i confini. La Cavolaia predilige gli orti, l'attira il bianco delle case umane; se scorge un muro, subito s'innalza, lo valica, discende alla ricerca di compagne festevoli ed ortaglie. E l'istinto sovente la sospinge nel cuor della città. Da primavera a tardo autunno, giunge nelle vie. E nulla è strano, come l'apparire, dell'invïata candida degli orti tra il rombo turbinoso cittadino. Allora s'interrompe il ragionare dell'amico loquace: - Una farfalla! - Com'è giunta nel cuor della città? Aveva la crisalide sui colli oltre il fiume, nell'orto di una villa. L'istinto delle razze numerose sospinge la farfalla ad emigrare; discese al piano, trasvolò sul fiume, valicò gli edifici, immaginando orti propizi e si trovò perduta, prigioniera nel grande laberinto di pietra che costrussero gli uomini. Da ore ed ore, forse dal mattino, s'aggira stanca per le vie diritte dove non cresce un filo d'erba o un fiore. Come si specchia nei diciottomila occhi stupiti il turbinìo dell'uomo? Forse a quei sensi minimi, la folla, le case, i carri, quei corpi grandi sono come la frana, il fuoco, l'acqua, fenomeni malvagi da fuggirsi. Fugge. L'attira un cespo semovente di fiori finti, un cencio verde, azzurro, si libra sulla folla, sull'intrico metallico, tra il rombo e le faville, e va senza riposo, un carro passa e la travolge nella scia ventosa... Con volo ravvivato dal terrore cerca uno scampo in alto, sale obliqua contro le case, attinge i tetti, il sole; si ristora ad un cespo di geranii, fugge lasciando un lembo d'ala a un mostro tentacolare e candido: una mano; vola sopra il deserto delle tegole né più discende nelle vie profonde, va tra la selva di colmigni spessi, da tetto a tetto, va senza riposo. Ed ecco aprirsi sotto la randagia l'abisso verde di un giardino; scende scende verso il colore che l'attira. Il giardino è degli uomini: ingannevole. Vi trova l'erba tenera, le fronde, i fiori, una brigata di sorelle sbandite, riparate in quell'oàsi. Ma l'erba cittadina non ha steli; gli alberi, mostri ignoti d'oltremare, non hano nella fronda coriacea un fiore. E l'uomo meditò nel fiore l'ultima frode: suggellò il nettario, con arte maga trasmutò gli stami in multiple sorelle mostruose. Le Pieridi s'aggirano sui fiori tentano le azalee ed i giacinti, ma le corolle suggellate al bacio son come belle donne senza bocca. Poche Pieridi trovano la via dei campi. Grande parte è prigioniera del chiuso laberinto cittadino; e nel triste detrito che raccoglie la scopa mattinale delle vie biancheggiano falangi d'ali morte... Dell'aurora Anthocaris cardamines Primavera per me non è la donna botticelliana dell'Allegoria. Primavera è per me questa farfalla fatta di grazia e di fragilità! Oggi, lungo il sentiero solatio dove sosta la lepre alle vedette, un orecchio diritto e l'altro floscio, tra il grano verdazzurro, lungo il rivo costellato di primule e d'anemoni, tra il biancospino, che fiorisce appena, ho rivisto l'Antòcari volare e il cuore mi sobbalza nell'attesa senza nome che tutte in me resuscita le primavere dell'adolescenza... Ma primavera non è giunta ancora. È la quinta stagione. Un chiaro Marzo canavesano, inverno già non più, non primavera ancora. È l'anno vecchio tinto a verde d'Enrico l'amarissimo. Se cantano le allodole perdute nella profonda cavità dei cieli, non s'odono le rondini garrire; lasciano appena il Delta o la Gran Sirte o riposano a Cipro ovver vïaggiano sul cordame d'un legno tunisino... Ma l'Antòcari vola e il cuore esulta! È la farfalla della novità, la messaggiera della Primavera, la grazia mite, l'anima del Marzo. Essa avviva la linfa nelle scorze, il brusio, il ronzio, lo stridio, risuscita l'incognito indistinto. Oh! Messaggiera della Primavera! La Terra attende. Il cielo che riempie il frastaglio dei rami e delle roccie sembra intagliato nel cristallo terso; il profilo dell'Alpi è puro argento; pallido è il verde primo, il pioppo è brullo, la quercia ancor non abbandona il fulvo stridulo manto che sfidò l'inverno; allieta lo squallore la pannocchia pendula verdechiara del nocciòlo, la nubecola timida del mandorlo; tiepido è il sole, ma la neve intatta sta nelle forre squallide, a bacìo. La Primavera non è giunta ancora, ma l'Antòcari vola e il cuore esulta! La messaggiera della Primavera è timida, sfuggevole alle dita, coscïente di sua fragilità; quasi non vola, s'abbandona al vento e visita la primula e l'anemone, la pervinca, il galanto, il bucaneve; il vento marzolino fa tremare petali ed ali dello stesso tremito e l'occhio mal discerne la farfalla: l'ali minori, marezzate in verde, chiudono come un calice l'insetto. Insetti e fiori; mimi scaltri, come v'accordaste nei tempi delle origini? Le pagine di pietra dissepolte attestano che i fiori precedettero gl'insetti sulla terra: fu l'anemone che alla farfalla ragionò così: «Sorella senza stelo, come sei fragile d'ali e debole di volo! Salvati dal ramarro e dalla passera: rivestiti di me, tingiti in verde ai lati, in bianco a mezzo, in fulvo a sommo, e con l'antenne simula i pistilli!». E il fior primaverile alla farfalla primaverile diede i suoi colori: dolce alleato nella vita breve... E la caduca musa marzolina sa che deve sparire con l'anemone, sparire prima della Primavera... Visita i fiori, intepidisce il regno per le grandi farfalle che verranno, poi, giunta al varco della vita breve, congeda il Marzo, volgesi all'Aprile: Aprile! Marzo andò: tu puoi venire!... Dell'ornitottera Ornithoptera Pronomus Sopra l'astuccio nitido di lacca una fascia di seta giavanese evoca un mare calmo che scintilla tra i palmizi dai vertici svettanti. Mi saluta un mio pallido fratello navigatore in quelle parti calde d'India, mi parla delle mie raccolte, ricorda la mia grande tenerezza per le cose che vivono, rimpiange di non avermi seco nelle valli favolose, mi manda una farfalla che mi porti il saluto d'oltremare attraverso la mole della Terra, dalle selve incantate degli antipodi. Con un tremito lieve delle dita apro l'astuccio d'erba contessuta e in un bagliore d'oro e di smeraldo ecco m'appare la farfalla enorme che mi giunge di là, che riconosco. L'Ornithoptera Pronomus, la specie simbolica dell'isole remote, la meraviglia che i naturalisti del tempo andato, reduci da Giava, dalle Molucche, dalla Polinesia, ci descrissero in libri malinconici. L'Ornithoptera Pronomus, la mole abbagliante che supera ed offusca le più belle farfalle dei musei. Con un tremito lieve nelle dita, il tremito che forse l'entomologo comprende... estraggo delicatamente, esamino il magnifico esemplare. Mistero intraducibile ch'emana dalle farfalle esotiche! Lo sguardo si perde, si confonde sbigottito come da forme soprannaturali; misera veste delle nostre Arginnidi, delle nostre Vanesse, delle nostre più belle specie, comparate a questa meravigliosa forma d'oltremare! Medito a lungo e l'occhio indagatore pur già discerne qualche analogia; anche questa bellezza che m'abbaglia come una forma non terrestre, come una specie selenica, fa parte della grande catena armonïosa, ha remoti parenti anche tra noi. Le zampe lunghe speronate, l'ali angolari dal margine ondulato, l'addome snello pur nella sua mole, un po' ricurvo, il corsaletto breve, la breve testa dalle antenne a clava, fanno dell'Ornithoptera il cugino barbaro del Papilio Podalirio. Ma come travestito! L'ali sono immense, di velluto nero, accese da larghe zone d'una brace verde, un verde inconciliabile col nostro pallido sole settentrïonale, l'addome è giallo, un giallo polinese intollerando sotto i nostri climi. La farfalla è brevissima, tutt'ala, stupendamente barbara, inquietante come un gioiello d'oro e di smeraldo foggiato per la fronte tatüata d'un principe, da un orafo papuaso ch'abbia tolto a modello il Podalirio nostrano, ingigantendolo, avvivandolo di colori terribili, secondo l'arte dell'arcipelago selvaggio. E la farfalla, che non so pensare sui nostri fiori, sotto il nostro cielo, ben s'accorda coi mostri floreali: gnomi panciuti dalle barbe pendule, ampolle inusitate, coni lividi evocanti la peste e il malefizio; s'accorda coi paesi della favola sopravissuti al tempo delle origini: vulcani ardenti, moli di basalto, foreste dal profilo mïocenico dall'aria dolce senza mutamento, dove la luce tremola e scintilla tra il fasto delle felci arborescenti. Della testa di morto Acherontia Atropos D'estate, in un sentiero di campagna, v'occorse certo d'incontrare un bruco enorme e glabro, verde e giallo, ornato di sette zone oblique turchiniccie. Il bruco errava in cerca della terra dove affondare e trasmutarsi in ninfa; e dalla gaia larva, a smalti chiari, nasceva nell'autunno la più tetra delle farfalle: l'Acherontia Atropos. Certo vi è nota questa cupa sfinge favoleggiata, dal massiccio addome, dal corsaletto folto, con impresso in giallo d'ocra il segno spaventoso. Natura, che dispensa alle Dïurne i colori dei fiori e delle gemme, Natura volle l'Acherontia Atropos simbolo della Notte e della Morte, messaggiera del Buio e del Mistero, e la segnò con la divisa fosca e d'un sinistro canto. L'entomologo tuttora indaga come l'Acherontia si lagni. Disse alcuno, col vibrare dei tarsi. Ma non è. Mozzato ho i tarsi all'Acherontia e s'è lagnata ancora. Parve ad altri col fremito dei palpi. Io cementai di mastice la bocca all'Acherontia e s'è librata ancora per la mia stanza, ha proseguito ancora più furibondo il grido d'oltretomba; grido che pare giungere da un'anima penante che preceda la farfalla, misterïoso lagno che riempie uomini e bestie d'un ignoto orrore: ho veduto il mio cane temerario abbiosciarsi tremando foglia a foglia, rifiutarsi d'entrare nella stanza dov'era l'Acherontia lamentosa. L'apicultore sa che questo lagno imita il lagno dell'ape regina quando è furente contro le rivali e concede alla sfinge d'aggirarsi pei favi, sazïandosi di miele. L'operaie non pungono l'intrusa, si dispongono in cerchio al suo passaggio, con l'ali chine e con l'addome alzato, l'atteggiamento mite e riverente detto «la rosa» dall'apicultore. E la nemica dell'apicultore col triste canto incanta l'alveare. All'alba solo, quando l'Acherontia intorpidita e sazia tace e dorme, l'operaie decretano la morte. Depone ognuna sopra l'assopita un granello di propoli, il cemento resinoso che tolgono alle gemme. E la nemica è rivestita in breve d'una guaina e non ha più risveglio. L'apicultore trova ad ogni autunno, tra i favi, questi grandi mausolei. Farfalla strana, figlia della Notte, sorella della nottola e del gufo, opra non di Natura, ma di dèmoni, evocata con filtri e segni e cabale dalle profondità d'una caverna! Bimbo, ricordo, per le mie raccolte, sempre immolai con trepidanza questa cupa farfalla, quasi nel terrore di suscitare con la fosca vittima l'ira d'una potenza tenebrosa. E anche perché l'Atropo mi parla di cose rare, dell'antiche ville. Sul canterano dell'Impero, sotto la campana di vetro che racchiude le madrepore rare e le conchiglie, sta quasi sempre l'Acherontia Atropos depostavi da un nonno giovinetto. L'Acherontia frequenta le campagne, i giardini degli uomini, le ville; di giorno giace contro i muri e i tronchi, nei corridoi più cupi, nei solai più desolati, sotto le grondaie, dorme con l'ali ripiegate a tetto. E n'esce a sera. Nelle sere illuni fredde stellate di settembre, quando il crepuscolo già cede alla notte e le farfalle della luce sono scomparse, l'Acherontia lamentosa si libra solitaria nelle tenebre tra i camerops, le tuje, sulle ajole dove dianzi scherzavano i fanciulli, le Vanesse, le Arginnidi, i Papilî. L'Acherontia s'aggira: il pippistrello l'evita con un guizzo repentino. L'Acherontia s'aggira. Alto è il silenzio comentato, non rotto, dalle strigi, dallo stridio monotono dei grilli. La villa è immersa nella notte. Solo spiccano le finestre della sala da pranzo dove la famiglia cena. L'Acherontia s'appressa esita spia numera i commensali ad uno ad uno, sibila un nome, cozza contro i vetri tre quattro volte come nocca ossuta. La giovinetta più pallida s'alza con un sussulto, come ad un richiamo. «Chi c'è?» Socchiude la finestra, esplora il giardino invisibile, protende il capo d'oro nella notte illune. «Chi c'è? Chi c'è?» «Non c'è nessuno. Mamma!» Richiude i vetri, con un primo brivido, risiede a mensa, tra le sue sorelle. Ma già s'ode il garrito dei fanciulli giubilante per l'ospite improvvisa, per l'ospite guizzata non veduta. Intorno al lume turbina ronzando la cupa messaggiera funeraria. Della passera dei santi Macroglossa Stellatarum Non tenebrosa come l'Acherontia - benché sfinge e parente - ma latrice di pace, messaggiera di speranze: portanovelle, passera dei Santi, col mattino chiarissimo di giugno penetrò nella mia stanza tranquilla la macroglossa rapida. L'illuse questa banda di sole, questa rosa vermiglia che rallegra le mie carte, turbinò prigioniera visitando le dipinte ghirlande del soffitto, rapida giù per le finestre aperte si dileguò come da corda cocca. Certo in giardino la ritroveremo sul caprifoglio che ricopre i muri d'una cortina folta innebriante. Eccola in opra sui corimbi; guizza da fiore a fiore come una saetta, sosta, si libra, immobile nell'aria, immerge la proboscide nel calice, e il corpo appare immoto nell'aureola dell'ali rivibranti: spola aerea, prodigio di sveltezza equilibrata! Tutto - nel capo aguzzo, nelle antenne reclini sotto i palpi, nelle zampe brevi aderenti al corsaletto lustro, nell'addome sfuggente affusolato, munito d'una spata di pelurie mobile forte come cocca espansa atta a guidare e a mitigare il volo - tutto s'affina nella macroglossa a fender l'aria, vincere lo spazio visitare i giardini più remoti in brev'istanza, messaggiera arcana da fiore a fiore. E i fiori si protendono verso l'insetto, come ad un'offerta. Amica, sotto il nostro sguardo ignaro si celebra tra il fiore e la farfalla il rito più mirabile, il mistero più tenero: le nozze floreali. «Mariti uxores unoeodemque thalamo gaudent...», Linneo meditabondo scrive. Degli sposi gran parte nasce vive ama nel tabernacolo smagliante della stessa corolla; sul pistillo giunge dall'alto degli stami il bacio desiderato, il polline fecondo. Ma dopo esperïenze millenarie molti fiori s'avvidero che il bacio nella stessa corolla, che lo stimma fecondato dal polline fraterno, conduceva la stirpe in decadenza, e vollero l'amplesso dell'amante lontano e meditarono le nozze non possibili. Alcuni, gli anemofili affidarono i baci d'oro al vento; gli entomofili vollero gli insetti paraninfi discreti e vigilanti. Ma il fiore - che sa tutto - non ignora che vano è al mondo attendere conforto se non da noi, che la farfalla esiste pel suo bene soltanto e la sua specie; ed ecco le scaltrezze del richiamo: i colori magnifici, i profumi ineffabili, il nettare che il fiore distilla in fondo al calice, a compenso del messaggio d'amore, per attingere la coppa ambrosia con la sua proboscide, la macroglossa deve tutti compiere i riti delle nozze floreali. Dall'epoca dell'arco e della clava ai giorni più recenti del telaio, del paranco, del fuso , dell'ariete, quando - e fu ieri - nostre meraviglie erano l'archibugio e l'orologio, i piccoli inventori propagavano la specie con mirabili congegni: l'elica rapidissima, il velivolo dell'acero, del tiglio, il vagabondo paracadute argenteo del cardo, la capsula esplosiva dell'euforbia, l'arma della mormodica potente, il gioco delle valvole, dei tubi intercomunicanti d'Archimede bene eseguito dalle piante acquatiche, l'ampolla chiusa, i piani inclini della ginestra, i raffi che lo scantio aggancia al pelo od alla veste del passante, tutti gli ordegni meditati, tutti gli accorgimenti per coperte vie, adatti a propagare la semenza schiusa dall'ombra torpida materna. Questo popolo verde che ci appare inerte e rassegnato, è il più ribelle alla fatalità che lo condanna in terra, dalla nascita alla morte. Un desiderio senza tregua, come di trasformarsi, sale dalla tenebra delle radici, grida nella luce delle corolle, cerca la sua legge: liberarsi, fuggire, modulare l'ali, imitare le farfalle al volo. A tante meraviglie il nostro vano orgoglio mal s'oppone col sofisma che l'intesa tra il fiore e la farfalla è fissa, che il mirabile congegno non muta. Ma il convolvo domestico abolisce il nettario, più non chiama la macroglossa da che sente l'uomo paraninfo sicuro e vigilante; altri fiori depongono gli aculei, il latice, i viticci, da che l'uomo li difende li guida li sorregge. I fiori precedettero gli insetti sulla terra nel tempo delle origini; questa sola certezza ci rivela un'intesa tra il fiore e la farfalla, ci rivela che i piccoli inventori sovvertono le leggi ed i modelli. All'apparire della macroglossa il caprifoglio congegnò se stesso all'indole dell'ospite imprevista. Altri dica: è Natura, e non il fiore, è Natura che fa tanto sottili provvedimenti! Menoma per questo forse il fervore della nostra indagine? Un enimma più forte ci tormenta: penetrare lo spirito immanente, l'anima sparsa, il genio della Terra, la virtù somma (poco importa il nome!), leggere la sua meta ed il suo primo perché nel suo visibile parlare. Per chi cerca il volume a foglio a foglio il genio della Terra - il genio certo dell'Universo intero - si comporta non come Dio ma come Uomo, attinge le stesse mete con gli stessi metodi: tenta s'inganna elimina corregge sosta dispera spera come noi; scopre ed inventa lento come il fisico, calcola incerto come il matematico, orna la terra come il buono artista. Come noi lotta con la massa oscura pesante enorme della sua materia; non sa meglio di noi dov'esso vada, agogna verso un ideale solo: elaborare tutto ciò che vive in sostanza più duttile e sottile, trarre dalla materia il puro spirito. Dispone d'alleanze innumerevoli, ma le sue forze intellettive sono pari alle nostre, nella nostra sfera. E se non sdegna gli argomenti umani, se tutto ciò che vibra in noi rivibra in lui; se attende come noi quel Bene sommo che la speranza ci promette, giusto è pensare che su questa Terra la traccia nostra non è fuor di strada, giusto è pensare che un'intelligenza sola, universa, sparsa ed immanente penetra in guisa varia i corpi buoni men buoni conduttori dello spirito; giusto è pensare che tra questi l'uomo è lo stromento dove più rivibra la grande volontà dell'Universo. Se la Natura mai non s'ingannasse e tutto conoscesse e ovunque e sempre rivelasse un ingegno senza fine, noi dovremmo temere dell'enigma, vacillare tremanti e sbigottiti; ma il genio della Terra e il nostro spirito attingono fraterni a una sorgente sola; noi siamo nello stesso mondo ribelli alla materia, eguali, a fronte non di numi tremendi inaccessibili ma di fraterne volontà velate. Amica, forse troppo a lungo e troppo superbamente noi c'immaginammo creature divine incomparabili senza parenti sulla Terra. Meglio ritrovarsi tra i fiori e le farfalle, essere peregrin come son quelli, verso la meta sconosciuta e certa. Certa è la meta. Com'è dato leggere tutto il destino della Macroglossa in ogni parte del suo corpo aereo foggiato ad eternare la bellezza d'una fragile stirpe floreale, chiaro si legge il compito dell'uomo nel suo cervello e nei suoi nervi acuti. Nessuno s'ebbe più palese il dono d'elaborare la materia sorda in un'essenza non mortale: anelito di tutto ciò che vive sulla Terra fluido strano ch'ebbe nome Spirito, Pensiero, Intelligenza, Anima, fluido dai mille nomi e dall'essenza unica. Tutto di noi gli è dato in sacrificio: la ricchezza del sangue, l'equilibrio degli organi, la forza delle membra, l'agilità dei muscoli, la bella bestialità, l'istinto della vita. |
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Ultimo Aggiornamento: 23/05/2001 16.52 Si ringrazia il sito www.liberliber.it |
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