Guido Gozzano - vita breve di un rispettabile bugiardo
di Giorgio De Rienzo



TERZO TEMPO
Le farfalle

Veramente la mia stanza modesta
è la reggia del non essere più,
del non essere ancora. E qui la vita
sorride alla sorella inconciliabile
e i loro volti fanno un volto solo.
Un volto solo. Mai la Morte s'ebbe più delicato simbolo di Psiche:
psiche ad un tempo anima e farfalla
sculpita sulle stele funerarie
da gli antichi pensosi del prodigio.

Epistola VI


1.Raccordo cronologico

L'ultima lettera indiana ai familiari parte da Colombo il 9 aprile: in essa Gozzano annuncia alla madre la prossima partenza e promette il rientro in patria per maggio. La prima lettera italiana è spedita da Agliè: diretta a Mamma Giordano, porta la data del 6 giugno 1912. Guido dà, qui, ragguagli precisi all'Eufrosina, "ansiosa dei casi" suoi: descrive il faticoso trasferimento da Torino in campagna della propria famiglia e ripropone subito il profilo di un "capo di casa" di nuovo efficiente: volenteroso e vigilante nell'alterna fortuna di questo ménage tanto squinternato. Le cure domestiche, la gestione spesso affannata di Gozzano massaio, costituiranno, di qui in avanti, il motivo più ricorrente del suo epistolario.
C'è tuttavia una precisazione da fare. L'epistolario di questi ultimi anni, fra l'estate del 1912 a quella del 1916, si fa frammentario, scarno: le lacune sono vistose e consentono un resoconto cronologico soltanto approssimativo. Ma soprattutto, anche ora, alla scarsità dei dati sicuri si contrappone una quantità di notizie indirette: di nuovo si accampa, prepotente, una mitologia tanto più facile a sorgere (e a permanere, pericolosamente), quanto più, appunto, è debole, frammentaria, la voce dei documenti autentici.
Proprio perciò diventa necessario ristabilire, almeno nei termini minimi che sono possibili, una cronologia certa: magari per segnare, semplicemente, una serie di spostamenti e di itinerari, d'incontri e di attività. Dopo il rientro dal viaggio indiano, dunque, ai primi del giugno 1912, Guido è ad Agliè, non più al Meleto, ma "in paese", ospite nella "ex-casa Beltramo". Ad Agliè rimane tutta l'estate, per rientrare stabilmente a Torino nell'ottobre. E’ possibile in questo mese una gita a Milano: quindi, ai primi di novembre, ci sarà il trasferimento in Liguria, con la madre. La meta, questa volta, non è più la Marinetta di San Francesco d'Albaro, ma Sturla, dove i Gozzano vivono "assai serenamente", in una "casetta" d'affitto "protesa sul mare come la tolda d'un bastimento". Di questa casa, lo si legge in una lettera del 2 dicembre, Guido cura, personalmente, l'andamento. Il soggiorno ligure è lungo, propizio "alla salute e alla poesia". A Sturla, o nei dintorni (a Sant'Ilarlo, a Vernazzola), lo danno presente tutti i documenti e le testimonianze del 1913, almeno fino all'agosto. Nell'estate però Gozzano, con la madre, dalla casa d'affitto si trasferisce in albergo, affrancandosi così, per qualche tempo, dalle cure domestiche. C'è, nel luglio, qualche gita ad Alassio, a trovare la sorella Erina in vacanza, qualche scappata a Genova; c'è il proposito di "proseguire la cura" dei bagni, "con costanza, a tutto Agosto"; c'è forse una gita a Cornigliano, a trovare i Borgese .
L'epistolario registra quindi un black-out totale dal 6 agosto 1913 fino al 3 gennaio 1914, giorno in cui, da Torino, parte una lettera a Marino Moretti. Se si fa eccezione per un brevissimo spostamento a febbraio in Liguria, con un repentino rientro, l'inverno e la primavera del 1914 sono cittadini. "Da qualche giorno" scrive Guido a Moretti il 27 febbraio "sono a Torino, in Liguria il freddo è pari con il vento in più". Nel 1912 e nel 1913 era documentata solo qualche sporadica collaborazione ai giornali: Gozzano aveva mantenuto contatti con "La donna", "La Lettura", "La Riviera Ligure", "L'Illustrazione Italiana" e con il "Corriere dei Piccoli"; aveva istituito un solo nuovo rapporto (con "Aprutium") e aveva inaugurato, nel giugno del 1913, la sua collaborazione alla "Stampa". Ora, proprio in questo 1914, con la pubblicazione degli articoli indiani, si consolida il rapporto con il "massimo foglio" torinese. Il nuovo impegno giornalistico determina il lungo soggiorno in città: un soggiorno che si protrae fino a tutto maggio. Il primo di giugno, con la madre, con Renato e con la domestica "Microbo", Guido parte per Bogliasco, dove, ospite nella villa Bigatti, rimarrà fino agli ultimi giorni d'ottobre.
Gli itinerari consueti di Gozzano, da questo momento, si capovolgono: le estati ora sono liguri, gli autunni e gli inverni, le primavere sono cittadine, mentre scompare - momentaneamente - dalla sua geografia il rifugio caro di Agliè. Il 24 ottobre 1914, una lettera a Moretti dimostra infatti Guido a Torino: e per tutto l'inverno, fisso in città, lo diranno anche gli altri rari documenti. Ancora da Torino partono nel 1915 lettere a Lionello Fiumi, il 17 marzo, ed a Renato Serra, il 19 marzo. Nell'aprile, sottoposto ad un consiglio di revisione, Guido viene definitivamente dichiarato inabile alla leva. Le lettere diventano ora rarissime- le pochissime dell'estate del 1915 sono spedite da Agliè, dal recuperato Meleto (ma è, soltanto, in affitto, per l'estate)- poi altri documenti danno Gozzano nell'inverno 1915-1916 a Torino, impegnato nella sceneggiatura del San Francesco. Alla fine di maggio Guido parte, da solo, per Sturla. Sarà il suo ultimo soggiorno marino: da Sturla inizierà infatti l'estremo viaggio, con il ricovero in ospedale a Genova, prima, con il trasporto a Torino, poi, dove morirà in via Cibrario, nell'agosto del 1916.
Nell'epistolario degli anni 1912-1916 si ricordano pubblicazioni di poesie e di prose, entra anche qualche notizia di incontri o di nuove modeste iniziative editoriali. Ma sono notizie che non paiono assumere un grande peso: danno, tutto al contrario, l'impressione piuttosto che di un rinnovato fervore operativo, di un adattamento a nuove e pressanti necessità di forza maggiore. C'è d'altra parte, in queste lettere, l'ipoteca pesante del silenzio quasi totale sul poema delle Farfalle, che dà la sua sensazione di una dolorosa rinuncia, per sempre, alla poesia. Tutto pare disfarsi, lo stesso epistolario di Gozzano si frantuma, in una serie di lettere soltanto più occasionali. £ questa davvero, quanto mai, l'ora domestica di Guido: quasi che il breve viaggio indiano, il suo ritrovarsi, sia pure per immagine, "solo per il mondo", gli avesse creato il bisogno di uno spazio psicologico di definitivo acquietamento.


2.Ancora "capo di casa"

In casa Gozzano, tra il 1912 e il 1916, si vive una “routine non allegra, ma regolare", che è turbata soltanto dagli umori della signora Diodata e dalle sregolatezze del giovane, inquieto, Renato. Questa routine ha spesso impennate da melodramma: ma Guido massaio non perde la testa, governa paziente e dà del suo fare (e del proprio osservare) resoconti precisi a Mamma Giordano, fin dal primo "trasloco" ad Agliè dell'estate 1912. "Trasloco", non trasferimento, è ogni piccolo viaggio di questa complicata famiglia. Protagonista assoluta, e un poco ingombrante, è sempre mamma Diodata, su cui ruota tutto il ménage e su cui, tenerissimo, fissa perpetuamente l'attenzione il figlio poeta.
Ecco dunque il resoconto di questo "trasloco": un trasloco con il lusso di un' "automobile", di uno "chauffeur" e di una "Peppina", che ha il ruolo di confortare mamma Gozzano. Il "viaggio" è "ottimo", senza "incidenti"; lo chauffeur guida come si deve, ma Diodata ha nel tragitto "parecchie crisi nervose e sfitte e contratture", che la fanno "gemere e gridare quasi tutto il tempo", sicché arriva ad Agliè "sfinita e disfatta". Guido con la madre ci sa fare, va per intuito ed ha l'occhio clinico: "Credo che queste sofferenze siano dovute all'avvicinarsi delle mestruazioni. Speriamo si risolvano in bene". E intanto provvede: chiama il medico per la "solita iniezione di morfina", e manda a Torino il “commissioniere”, per prendere "cuscini e coperte", che scarseggiano ad Agliè .
Da Agliè Guido chiede. Da Torino Mamma Giordano provvede. Arrivano coperte e cuscini, arrivano consigli ed auguri. Ed arrivano anche le "mestruazioni" della signora Diodata, che Gozzano, notarile, commenta, a stretto giro di posta, coinvolto come è in questa "fase ben triste". Il mestruo è "abbastanza forte", l' "accasciamento fisico e rnorale" della madre è quindi "tremendo": né si può sperare che la "crisi" passi al più presto. Cambiano i luoghi, mutano le situazioni, gli itinerari delle lettere si capovolgono, ma la sostanza rimane la stessa. L'11 ottobre Guido, con la madre, è a Torino: la signora Diodata è sempre "piuttosto accasciata". Si sono attenuati, così pare, i guai fisici, ma l'umore non è dei migliori.
Siamo in una "fase transitoria", registra l'attento Gustavo, perché violenta, irreparabile, è scoppiata la "crisi delle serve": e di ciò, come è ovvio, "soffre terribilmente" la padrona di casa. Guido osserva, registra, è scettico, ma rassegnato, e prova a fare qualcosa: rappezza, dove può sbotta qua e là, raccomanda la calma. "Più che mai invochiamo", scrive ad Eufrosina, "la tua presenza, per avere dal tuo buon senso e dalla tua perspicacia profonda un giusto consiglio al riguardo". C'è anche, per inciso, un concreto problema economico: si è assunta una dama di compagnia, ma il "prezzo" pagato non è pari al servizio; si è reclutata una vegliatrice, che fa il suo dovere, ma ha un limite: se "imparasse a far le iniezioni ci sarebbe da rimpiangere meno le cinquanta lire che le diamo".
Altro trasloco, da Torino in Liguria, alla fine dell'autunno: e nuovo, inevitabile, trauma, per la signora Diodata. La lettera alla sempre attenta Eufrosina è del 2 dicembre 1912; ed ha la caratteristica, questa volta, d'essere una lettera a due voci. Il tema è ancora quello delle ancelle". Voce di Guido; ed è voce ottimista, tranquillizzante: le ancelle s'impratichiscono", c'è qualche parola di più, qualche movimento maldestro, ma "complessivamente potete stare tranquille di tutto". Ma ecco la voce della signora Diodata, che è una Mautino, "signora", appunto, più pretenziosa del suo figlio borghese; ed è voce stizzosa, melodrammatica. Il suo "povero cuore" è "tanto piagato", le sue "ansie aumentano" e la fanno soffrire "immensamente e terribilmente". Ma non è questo il punto, il punto dolente sono le ancelle. "A vedere come vanno le cose m'è di tormento. Gustavo dice che tutto procede bene e... va bene", commenta bizzosa la signora Gozzano: "Io però mi cruccio non poco di certe padronanze, certi ordini impartiti a dritto e traverso da persone che non sanno che far confusione, e darsi importanza... Se non avessi vicina la Linda che m'incoraggia a pazientare... credi che spesse volte rasenterei la pazzia......
Si apprende da questa lettera che "Guido per Natale sarà a Torino". La madre già "si cruccia", ad un mese di distanza, di tale partenza e intona il proprio lamento: "Che tristezza sarà per me queste feste tanto lungi da Voi!!... Scrivetemi almeno. Mi sentirò meno sola!". Tanti puntini di sospensione, così numerosi esclamativi, danno più d'un motivo, per scrivere un capitolo sulla mansuetudine domestica di Guido Gustavo Gozzano, sulla sua reale pietà filiale, che determina premure e tremori davvero esclusivi per questa mamma piagnucolosa. Quando nell'estate del 1913, Guido convincerà la madre a raggiungerlo a Sturla, andrà a prenderla, per aprire - così dice - un'altra pagina della "nostra nuova esistenza": quel "nuova" è un lapsus, che la dice lunga sulla passione e sull'impegno di Gozzano in questo ménage. E ci sarà, infatti, tutto un dibattersi, prima, tra "ansietà" ed "esitanze.", ci sarà, poi, un sentire il peso della "responsabilità della situazione", ci sarà, in conclusione 5 un'autentica esplosione di "gioia", nel vedere, accanto a sé, finalmente, la madre "bene e serena".
La protagonista di questa piccola, scombussolata comunità è certamente la signora Diodata. Le antagoniste, per lo più, sono le ancelle.
Ma Gozzano massaio non è soltanto il mediatore tra questi due fuochi. C'è il "coro" della famiglia satellite dei Giordano, con Eufrosina, discreta previdente e concreta; con Erina, tenera ed avveduta: destinatarie, l'una e l'altra, di una ininterrotta gratitudine, sempre commossa, felicemente in abbandono, di Guido. C'è il nipotino Francesco, collezionista di francobolli, apprendista meccanico, intelligente, che permette, se non altro, in qualche letterina a lui diretta, di scorgere il profilo di un Gozzano zio, partecipe di giochi e di passioni, di interessi e di piccoli entusiasmi .
E si affaccia ancora la figura del fratello Renato, un "capitolo irresolvibile", come dice una volta Guido sbottando, nella storia domestica di casa Gozzano; ma anche un capitolo avventuroso in questa storia, a cui, in qualche modo, il più vecchio Gustavo partecipa complice, talvolta persino compiaciuto, sempre, in ogni caso, in qualità di giudice molto indulgente. Renato non studia e Guido va brigando per qualche raccomandazione. Renato cerca lavoro, s'appoggia sul fratello, e giacché questi qualcosa conta nel mondo del cinema, va da Ambrosio e si fa forte del nome. Ancora. Renato cambia programmi e vuole viaggiare. Guido progetta allora per lui un impiego "o in una casa di spedizioni o in una società di navigazione" e subito, solerte, si muove, trafficando per togliergli il peso del servizio militare. Al fratello "più atto", Gozzano vuole che siano aperte le strade del mondo: per lui non esita a cercare, in ogni modo, una vita d'uscita dalla "routine non allegra" di casa.


3."Le farfalle" incompiute

Quando Gozzano è in India e si prepara al rientro, pensa a ciò che lo attende, pensa soprattutto alla conclusione del suo più importante lavoro interrotto: "Ad Agliè nei mesi di tranquillità dovrò lavorare di lena al poema Le farfalle, che è arretrato molto e dovrò anche provvedere alle illustrazioni. Per settembre devo consegnarlo" . Dall'India Gozzano ritorna con un bagaglio non pesante di ricordi e d'esperienze. In questo bagaglio, comunque, trova posto una piccola collezione di farfalle. Non risulta da nessun documento che nell'estate Guido lavorasse alacremente alle sue Epistole entomologiche: anzi pare accertato che ci ponesse poca attenzione e che, dopo d'allora,. le abbandonasse quasi del tutto. Ciò non toglie però che un giornalista torinese, andando a cercare l'anno dopo il poeta dei Colloqui e scovandolo a Vernazzola, presso Sturla, "fra i pescatori distesi al sole sulla spiaggia, ozianti nel meriggio d'aprile", riportasse poi per i lettori della "Stampa" una ghiotta notizia, proprio sull'imminente apparizione delle Farfalle.
Gozzano, in questa intervista, discorre con generosità del poema, e scende nei dettagli, parlando del presente, del passato e del futuro. "In questi anni di silenzio ho pensato seriamente a rinnovarmi", dice: "Io ho sempre avuta una grande passione per la storia naturale, passione ch'eguaglia, se non supera le mie tenerezze per la letteratura. Di qui mi si è offerta l'occasione al rinnovamento. Decisi di cantare la vita degli insetti e delle umili cose create. E ho scritto un poema sulle farfalle. Ho voluto soprattutto fare opera di poesia puramente italiana e sono tornato alla forma didascalica, attraverso il mio spirito moderno. Come naturalista e come poeta sono forse un poco fraterno coi poeti settecenteschi". Fin qui Gozzano sta sul generico. Poi entra nei particolari e incomincia a imbrogliare. "Il poema sulle Farfalle non sarà pubblicato prima dell'autunno", racconta, e passi ancora. "Il contratto con Treves è firmato", insiste; ed anche questo può esser vero. "Il manoscritto" è già consegnato "da più di un anno", assicura; e qui, invece, i conti proprio non tornano. Questa è una consapevole menzogna, a cui Guido accompagna, con abilità, il diversivo delle illustrazioni. "La pubblicazione non è avvenuta", spiega, "perché io non ho potuto ultimare le illustrazioni. Io stesso lo illustrerò. A tempo perso disegno pure e in questo caso ho creduto di essere dell'opera mia il migliore illustratore io stesso, semplice disegnatore dilettante, più di qualunque grande pittore". Menzogna per menzogna: questa ha perlomeno il pregio della verosimiglianza. Non solo, riuscirà a far spostare le responsabilità di un fallimento del "poeta", a quelle del "disegnatore dilettante".
Il resto delle dichiarazioni decora, con maggior scaltrezza, concetti espressi già altrove, privatamente o pubblicamente. Gozzano parla di una rigorosa "fedeltà scientifica, illegiadrita da uno stile un po' arcadico"; dice che il suo poema "arieggia" le Api del Rucellai, l'Invito a Lesbia Cidonia del Mascheroni, "per l'italianità del lavoro":

Ho riesumato la forma didascalica, cercando di rinnovarla, di liberarla d'ogni orpello retorico, d'ogni polvere secentesca. E pur dando al volume la forma, il rituale, lo stile lievemente arcadico, ho cercato di trasfondervi lo studio "dell'animato fiore senza stelo" con qualche speculazione filosofica.

L'intervista termina qui. Ad essa è allegata una breve, ma dettagliata, descrizione del poema. Nelle Farfalle - spiega il giornalista - si narra la vita d'una "falange" di Vanesse Io, seguite nel loro sviluppo, dal momento in cui il germe è deposto sopra "una foglia d'ortica", sino all'ora del volo. Il poeta raccoglie la sua falange, e assiste, giorno dopo giorno, alla trasformazione da bruco a crisalide a farfalla; "canta la metamorfosi ed espone in versi fedeli le considerazioni filosofiche che quello spettacolo gli ispira". Questo in una prima parte. Nella seconda, liberate le sue farfalle prigioniere, il poeta esce all'aperto e "considera le varie specie di farfalle in alcune monografie". Ancora un'informazione: "Il poema per fedeltà di rituale arcadico, è dedicato ad una Lesbia Cidonia ipotetica, dal nome fantastico. Si divide in dieci epistole o in dieci canti, compresa l'introduzione".
Questa intervista ha giocato anche un brutto scherzo postumo. Ha indotto, per esempio, qualche filologo non molto attrezzato a commettere errori grossolani di edizione. Ha ingarbugliato i piani di qualche biografo avventizio, che - badando soltanto alle date di alcune sparse dichiarazioni - ha collocato le Farfalle in una cronologia tutta posteriore al 1912. Il che ha consentito un bel capitolo su una grande Poesia, negata dalla Morte precoce: un capitolo ad effetto, ma senza alcun fondamento. Gozzano con il giornalista della "Stampa" gioca d'azzardo, barando con un secondo fine. L'intervista appare sul giornale torinese verso la fine d'aprile; al primi di giugno, con L'ultima traccia, Guido inaugura la sua collaborazione al "massimo foglio" di Torino. L'intervista, l'anticipazione in esclusiva dei versi del libro "apparituro", costituiscono un buon passaporto per il nuovo lavoro: e nelle interviste, soprattutto in quelle forzatamente generose, qualcosa d'importante si deve pur dirlo. Gozzano sceglie, per sé, la carta del proprio "rinnovamento".
Guido mente con una disinvoltura che è allegra solo all'apparenza: il suo gioco in realtà è spudorato, come vedremo, soltanto per disperazione. Mente comunque, molto di più di quanto non avesse fatto nel 1911, in pubblico ed in privato. Nell'anno trionfale dei Colloqui, c'era stata un’intervista a "Prisma", di cui abbiamo già parlato, nella quale Gozzano, sul suo futuro letterario, recitava, amplificava, ma non inventava. Interrogato sulle Farfalle, nel 191 1, dice che il poema "è compiuto": e rischia, ma solo in parte, perché - in questo momento - è in piena effervescenza creativa; sulla pubblicazione se la cava, anche ora, spostando il discorso sulle illustrazioni. Certo c'è qualche scarto di fantasia vistoso: Guido parla di spettacolari peregrinazioni, "per osservare le farfalle più diverse, nelle praterie delle pianure, nei boschi, sull'orlo degli abissi... ". Questa intervista del 1911 è infiorata, tattica nel proprio calcolo attento delle parole; ma è un'intervista che non contiene nessun falso palese: pecca, se mai, per eccesso di ottimismo, com'è naturale del resto, per un poeta che è molto acclamato e ancora molto attivo.
L'intervista del 1913 invece è soltanto un bluff consapevole. La storia reale, quella creativa, delle Farfalle è tutta anteriore a questo 1913.
Dopo, semmai, è la storia triste della vendita di qualche frammento, al prezzo più alto. Gozzano pubblicherà infatti un estratto dall'Epistola VI, nella "Grande Illustrazione" di Pescara del febbraio 1914. Pubblicherà quindi estratti dalla Epistola VIII e dalla Epistola X sulla "Stampa" del 4 marzo. Pubblicherà infine La messaggiera marzolina sull' "Illustrazione Italiana" del 23 aprile 1916. Più avanti andrà nel tempo, più, in pubblico, ostenterà progetti ambiziosi. Ma è soltanto l’estensione persino casuale di un programma, che è ormai definitivamente abbandonato e sul quale ogni menzogna diventa perciò possibile.
In privato, invece, il 15 agosto del 1915, un anno prima di morire, in una lettera a Silvia Zanardini, aveva già relegato le Farfalle, definitivamente, irrimediabilmente, tra l' "inedito", anche se fra le sue cose migliori.
"Da tempo non faccio più nulla e - sintomo migliore ancora - non soffro di non fare", dice Guido: "Se scriverò ancora un volume sarà la negazione di tutta l'opera compiuta, edita e inedita: e la parte inedita è molto buona, forse la produzione mia migliore: posso riconoscerlo senza modestia perché oggi mi è indifferente come cosa non mia e non la pubblicherei a qualunque costo...". Questa ed altre testimonianze epistolari, ma soprattutto l'esame attento dei manoscritti autografi, ancora ben conservati, e certamente eloquenti, hanno potuto consentire, per l'operatività di Gozzano intorno alle Farfalle, una ipotesi di datazione attendibile, tra l'estate del 1908 e l'inizio del 1912. Prima e dopo di questa data, le "farfalle" sono soltanto "comparse" della poesia gozzaniana, oppure "personaggi" della sua biografia.
In questo stesso arco cronologico appena indicato, ci sono, come vedremo, le farfalle del documentario cinematografico realizzato nel 1911 con Roberto Omegna: e c'erano state prima le farfalle magiche e fiabesche di Piumadoro e Piombofino. Ma il cammino a ritroso ci riporta a tante altre presenze. Ci riporta, per esempio, alla "Vanessa variopinta" della Passeggiata (1913), che occasiona un sadico gioco d'infanzia; e su su fino alla più nota Vanessa Io, "nera come il carbone", dei versi inaugurali della Via del rifugio, una farfalla che "aleggia in larghe rote / sul prato solatio, / ed ebra par che vada".
Ma accanto a queste farfalle, che si fanno "comparse" insistenti nella poesia di Gozzano, ci sono soprattutto le farfalle che attraversano come "personaggi" la sua vita: una vita, non per nulla, proprio da questi fragili insetti, a lungo decorata dalla leggenda la quale fa Guido "provetto entomologo" fin da fanciullo. Non è necessario ricorrere alla leggenda, è sufficiente rimanere ai fatti: i fatti dimostrano che sono proprio questi "personaggi" biografici ad occasionare la stessa concezione delle Epistole entomologiche. Non è un caso davvero che il disegno di un "libro", sognato "da tempo", nasca, con prepotenza, proprio da quel "gioco" delle farfalle, che Guido istituisce con Amalia nelle sue lettere dell'estate 1908.
Un "gioco" coltivato con "infinita pazienza", che porta ad un immenso stupore, ad una "speranza ansiosa", come dice Guido ad Amalia, quando le farfalle, "ancora fasciate dalla crisalide, sentono imminente l'ora del volo", prima, e quando nella sua camera, poi, è un frusciare "turbinoso di prigioniere sbigottite". La nascita, in idea, delle Epistole entomologiche sta in questo momento intenso di vita e di "gioco", sta in questo improvviso e struggente innamoramento. Ed è un amore che dura nel tempo. Lo slancio entusiasta da cui nasce il poema, nell'estate del 1908, è intatto ancora l'anno dopo, quando Guido confessa a De Frenzi di continuare a raccoglier farfalle e di meditare "un volume su queste creature". "lo sono un entomologo profondo ed appassionatissimo e vorrei trasfondere in una serie di lettere ad una donna tutta la poesia che emana dai lepidotteri. Dovrò rifarmi bimbo di dieci anni per rivedere queste cose con occhi degni... Tenterò". Appunto: "Tenterò", dice Gozzano. Ed in questo tentare, provare, studiare, in un martirio di pensiero e di organizzazione della materia, ma soprattutto di scrittura e di stile, si riassume l'avventura biografica delle Farfalle.
Occorre partire di qui, per capire il significato delle Epistole entomologiche: da questa lunga progettazione di un poema unitario; dalla complessa pianificazione di un lavoro, che via via si va modificando nel proprio disegno; dall'ambizione ad un mutamento radicale, ad una diversità poetica; dalla gioia assaporata di una "conversione" letteraria. Il progetto approderà ad un fallimento. L'ambizione si risolverà in una frustrazione. La "conversione" non ci sarà. Le Farfalle resteranno inedite, ma soprattutto incompiute. Dal poema a lungo sognato vengono fuori soltanto rari frammenti, che Gozzano vende, malinconicamente, a qualche giornale che paga bene.
Ma rimangono anche i suoi fitti quaderni di appunti, di abbozzi, di versi, che testimoniano un lavoro dolorosamente interrotto, tralasciato per impotenza creativa. La vera storia delle Farfalle è questa: la storia di una afflitta rinunzia, di una tristissima resa; ma insieme della serena. accettazione dei propri limiti, del maturo riconoscimento della propria insufficienza. Nella vicenda delle Farfalle, allora, si consuma l'ultimo spazio reale di vita di Gozzano: ciò che rimane è soltanto una rassegnata attesa della morte, una stanca sopravvivenza senza illusioni.
Semplificando un poco le cose, Carlo Calcaterra, nello studiare i testi monchi delle Farfalle, osservava che era tutto di Gozzano, "fanciullo morente, ora cupido ora svogliato della vita che gli sfugge", quel "contemplare la natura, il tempo, le favole degli uomini, come di chi sta sulla soglia dei morti e beve la luce del giorno, che presto più non sarà".
Il significato delle Epistole entomologiche non si esaurisce semplicemente in questa atmosfera di crepuscolo. Questa storia si origina da uno scarto più brusco avvenuto nell'anima di Guido. Per capire bene questo passaggio si deve risalire al Reduce, l'ultima sezione dei Colloqui, dove Gozzano, dopo aver finito di illustrare le "avventure storiche" di un'esistenza mancata, istituisce un dialogo con la propria Musa ed i propri lettori per riflettere sul suo stesso futuro destino di poeta.
Ebbene, questo futuro prevede l'alternativa fra il silenzio o un radicale rinnovamento. L'alternativa del silenzio è quella proposta dai versi finali della raccolta:

L'immagine di me voglio che sia
sempre ventenne, come in un ritratto;
amici miei, non mi vedrete in via,

curvo dagli anni, tremulo e disfatto!
Col mio silenzio resterò l'amico
che vi fu caro, un poco mentecatto;

il fanciullo sarò tenero e antico
che sospirava al raggio delle stelle,
che meditava Arturo e Federico,

ma lasciava la pagina ribelle
per seppelir le rondini insepolte,
per dare un'erba alle zampine delle

disperate cetonie capovolte...

L'alternativa per un radicale rinnovamento, è quella proposta in Pioggia d'agosto:

Ah! La Natura non è sorda e muta;
se interrogo il lichene ed il macigno
essa parla del suo fine benigno...
Nata di sé medesima, assoluta,
unica verità non convenuta,
dinnanzi a lei s'arresta il mio sogghigno.

Essa conforta di speranze buone
la giovinezza mia squallida e sola;
e l'achenio del cardo che s'invola,
la selce, l'orbettino, il macaone,
sono tutti per me come personae,
hanno tutti per me qualche parola...

Il cuore che ascoltò, più non s'acqueta
in visioni pallide fugaci,
per altre fonti va, per altra meta...
O mia Musa dolcissima che taci
allo stridìo dei facili seguaci,
con altra voce tornerò poeta!

La storia delle Farfalle si racchiude in questa alternativa: gli abbozzi delle Fpistole entomogiche testimoniano la volontà di tener fede ad una promessa d'esser "poeta", con "altra voce"; le Farfalle incompiute documentano la rinuncia di Gozzano ad adempirla, il suo acquietamento nel silenzio. Nella Storia di cinquecento vanesse c'è questo momento meditativo:

Forse lo stanco spirito moderno
altro bene non ha che rifugiarsi
in poche forme prime, interrogando,
meditando, adorando...

Le Farfalle nascono da un simile movimento coraggioso di osservazione minuta, da una intraprendenza di guardare "con occhi nuovi, sempre bene aperti", come si legge nell'Epistola VI. Al vecchio "catalogo", ai vecchi "elenchi", che annullavano nell'esercizio di vocabolario la realtà, Gozzano oppone ora, davvero, una "Musa paziente, osservatrice", che porta ad "essere un altro", ad "uscire di se stessi". Questa Musa raggiunge un momento di profonda verità. C'è nelle Farfalle, appunto nell'Epistola VI, una sequenza rivelatrice che ripropone, apparentemente, la scena descritta nella lettera ad Amalia. Il poeta si rappresenta nella propria stanza e osserva, anzi spia, la trasformazione delle crisalidi in farfalle. Le crisalidi addormentate pendono dal soffitto, dai libri, dalle cornici delle stampe:

ovunque la mia stanza è un scintillare
di pendule crisalidi sopite.

E’ il momento centrale, questo, di tutto il poemetto. Questa stanza diventa "come un regno intermedio tra la vita e la morte, colmo di un'attesa immobile, necropoli che cela esistenze invisibili. E il poeta è un negromante che

custodisce gli spiriti captivi
dei trapassati, degli apparituri.

La stanza non è più un laboratorio scientifico, ma la

reggia del non essere più,
del non essere ancora...

Vita e morte si conciliano, i loro volti si fondono in un volto unico e nuovo". Ma è bene lasciare, questa volta, completamente spazio alla parola di Gozzano che, nell'abbozzo in prosa, spiega con chiarezza esemplare questo passaggio:

La natura non espresse una creatura maggiormente degna della nostra ammirazione di quest'essere che viene sulla scena dei mondo e vi fa la sua parte sotto tante maschere opposte. Gli antichi erano così sbigottiti dalle metamorfosi della farfalla, dalla sua rinascita dopo la morte apparente - che l'avevano considerata come l'emblema dell'amore. La parola greca Psyché significava amore e farfalla e la farfalla figura sulla stele funeraria come l'emblema dell'immortalità. Perché la Natura ricorre alle metamorfosi che - per quanto meravigliose - sono un segno d'imperfezione. Se la Natura fosse onnipossente avrebbe creato la farfalla di colpo: invece è ricorsa a questa via complicata, pericolosa e dolorosa che decima gl'insetti, evidentemente perché anche la Natura soggiace a difficoltà e a limiti che tenta di vincere a poco a poco. Consolante è per noi, pensosa amica, consolante è per noi che la Natura non sia perfetta: così ci sentiamo meno soli, meno sbigottiti davanti al mistero, sentiamo che tutta l'intelligenza sparsa nel mondo lotta e soffre come noi contro gli stessi limiti da superarsi. Tanto i contigui son pari tra loro / tanto gli estremi son tra lor diversi.

Siamo davvero nel nucleo più alto del pensiero e della poesia di Gozzano: il ritrovamento di questo attimo di verità assoluta, fra "tante maschere opposte", la scoperta di questo momento "consolante" di imperfezione sublime della natura, è il "punto terminale di una ricerca durata tutta la vita", come è stato osservato. Un punto "terminale", di fronte al quale tuttavia si smarrisce Gozzano, nel "presagio di essere troppo vicino al cuore della propria creazione", nel "timore, portandolo alla luce, di soffocarlo". E opinione banale, ha scritto Giuseppe Pontiggia, pensare che "la meta di un artista sia di esprimere se stesso": "L'arte non è solo discendere agli inferi, ma risalire alla luce: e forse Gozzano sentiva che, affrontando finalmente i temi della crisalide, della metamorfosi e della farfalla, era arrivato al nucleo della propria ispirazione, fino a diventarne prigioniero, come un insetto al centro della ragnatela".
La storia della poesia non ammette l'uso del condizionale. E’ una storia che va fatta, rigorosamente, con l'indicativo, che può tener conto soltanto di ciò che è stato e non di ciò che sarebbe potuto accadere. Il condizionale invece può essere un dato biografico oggettivamente ricostruibile. Rimane un fatto biografico importante l'intenzione di lavoro di Gozzano per le sue Farfalle, così come diviene un fatto decisivo, poi, la sua scelta dell'incompiuto e dell'inedito. Gli abbozzi, gli schizzi, i frammenti delle Epistole entomologliche testimoniano molto chiaramente l'avvio di un profondo processo di maturazione. Ma la maturazione che il compimento (e la pubblicazione) delle Farfalle avrebbe comportato non avviene. Gozzano non riesce a tradurre in un gioco amabile di sillabe la nuova verità finalmente raggiunta e non solo più intravvista; né sa rinunziare alla sua antica ricerca della grazia stilistica. Gozzano, per usare l'espressione di Pontiggia, non ha sufficiente forza (o coraggio), per arrivare al "nucleo" della sua ispirazione: preferisce rimanerne, per sempre, "prigioniero", sceglie di acquietarsi in un malinconico silenzio.
E’ un circolo vizioso, questo, che può essere percorso anche leggendo i versi superstiti delle Epistole entomologiche. Il punto di partenza è dunque quello della ricerca di una "nuova" poesia, che scaturisca da un'inedita prospettiva d'osservazione del mondo. Guardando il volo del Parnassus Apollo

il poeta disteso sull'abisso,
col mento chiuso tra le palme, oblia
la pagina crudele di sofismi,

segue, "con occhi estatici", la sua farfalla

e bene intende il sorgere dei miti
nei primi giorni dell'umanità.
Ma il punto d'impatto, l'ostacolo da superare, diviene subito quello del "gioco" della parola, del "rituale arcadico", del "bello stile". Le Farfalle riproporranno, con frequenza, immagini autobiografiche. Non solo, come accade nell'abbozzo in prosa dell'Acherontia Atropos, riproporranno addirittura personaggi, situazioni e luoghi, nuovamente interpretati dalla vecchia poesia. E ancora, nelle Epistole entomologiche, riapparirà quell'atteggiamento, costante in Gozzano, dell'osservazione del mondo. Ma è un'osservazione che si fa più partecipe, nella sua stessa considerazione del particolare microscopico, del dettaglio minutissimo. C'è tuttavia qualche cosa di molto più vistoso, un mutamento davvero radicale, in questo atteggiamento d'osservazione. Gozzano non è più il voyeur distaccato della Via del rifugio: la sua partecipazione è totale, persino estatica, nelle Farfalle.
Proprio da questo nuovo modo di guardare, che non si difende più nel distacco, ma che accetta fino in fondo il rischio della partecipazione, doveva scaturire la nuova poesia di Gozzano, finalmente proiettata del tutto fuori dell' "io", assorta nella contemplazione del mondo, a cui si tenta di strappare il segreto. Da questo nuovo modo di osservare, si intuisce lo scatto di maturazione psicologica di Gozzano. Ma il processo di questa maturazione s'interrompe, lo scatto non avviene. Il poeta "negromante", che contempla e si esalta nel momento della trasformazione della crisalide, tra il "non essere più" ed il "non essere ancora", che vive il martirio di "ritrarne col pennello e col verso il divenire"; ancora, il poeta che scopre la sublime imperfezione della natura, non sa accettare il rischio, per sé, dell'imperfezione: rimane prigioniero davvero di un sogno di sillabe perfette, di un "gioco" arcadico. Al giornalista di "Prisma", che gli aveva domandato, nel 1911, se l'opera futura fosse di "gran mole", Gozzano rispondeva che "nei poemi didascalici il pericolo maggiore è la prolissità": perché in essi, diceva, "bisogna vigilare di continuo, reprimere l'impeto lirico, mozzare i rami secondari, ridurre l'opera alle sue linee principali". Gozzano era buon profeta di sé: il problema delle Farfalle era allora per lui, nel 1911, e rimane nel 1913, quando ne parla al giornalista della "Stampa", un problema esclusivamente di stile. Era e rimane, sul piano biografico, un doloroso problema di rinunzia ad un vecchio "gioco" della parola. Gozzano non accetta questo sacrificio: preferisce abbandonare le Farfalle, rassegnandosi ad un silenzio che maschererà, dal 1912 al 1916, nell'attesa della morte, con qualche stanca ripetizione di sé o con qualche stravagante diversivo.


4.Il cineasta contestato

"La sorte volge sempre assai poco lieta per noi. La mamma non accenna a migliorare e soffre in modo veramente pietoso", scrive Gozzano a Fausto Gnavi, il 3 agosto 1912. "lo divido il mio tempo fra le occupazioni e la direzione della casa, l'assistenza alla mamma e l'istruzione di Renato", racconta, "quindi mi resta ben poco da dedicarmi alla lettura; da qualche mese ho dovuto tralasciare anche la collaborazione sui giornali" . Il fervore operativo del 1911, dopo la pausa del viaggio indiano, pare del tutto scomparso. In questo scorcio del 1912 e nella metà del 1913 non è documentata che qualche sporadica collaborazione giornalistica: sono interventi episodici, senza una benché minima continuità, che non danno segno, in alcun modo, di una qualsiasi organizzazione di lavoro. Al contrario, l'epistolario gozzaniano di questi anni testimonia un'attenzione, talvolta ossessiva, al risparmio, un calcolo minuzioso delle lire, persino qualche momento di spilorceria.
Quando Gozzano si trovava ancora in India, scrivendo alla sorella Erina, parlava dei suoi "progetti letterari e finanziari", che definiva "molti", con ottimismo. In questa stessa lettera della fine di marzo, informato dei movimenti del fratello, si turba un po' dell'intraprendenza di Renato, che ha cominciato a frequentare gli studi cinematografici di Ambrosio. "M'inquieta che vada da Ambrosio", dice, "perché – pur facendo il suo dovere - non ho più nella Ditta quell'ascendente e quella indipendenza che ho goduto fin qui". "Ma se questa è fortuna", aggiunge con buon cuore, "pazienza! lo ho molte altre vie a mia disposizione". Nei fatti, invece, non pare che negli anni 1912 e 1913, queste "vie" gli si siano poi aperte. Non quella della collaborazione continuativa ai giornali, non quella dei libri: anche se nel 1914 Gozzano darà pure alle stampe un suo volume di fiabe. Le pochissime lettere di questo periodo documentano, come si è visto, un via vai di cameriere, una serie di "traslochi", molto lamentarsi e protestare di mamma Gozzano, qualche esercizio di contabilità, ma nulla, o quasi nulla, che abbia a che vedere con il "fare" letterario di Gozzano. C'è, in un inciso, fra queste lettere, una sola notizia importante, e viene da Sturla, il 25 luglio 1913, quando Guido descrive ad Eufrosina Giordano il lento ritmo quotidiano della vita ligure: "Qui viviamo sulla spiaggia dalle otto del mattino alle otto di sera, non interrompendo la cura d'acqua e di sole che all'ora dei pasti o per scrivere qualche film. In questo mi aiuta Renato".
E’ possibile dunque che il 1912 ed il 1913 siano per Gozzano gli anni del cinema. La questione però è controversa: ed è allora necessario, per tentare di chiarire le cose, muoversi un po' per giri larghi. C'è, anche in questo caso, una leggenda, ricca di colore, che fa Gozzano addirittura "cineasta": ed è una leggenda, senza precisa cronologia, che ammucchia notizie e dati, senza badare troppo ai particolari ed al riscontri. Certo, se è vero che Torino, al tempo del cinema muto, diviene di nuovo "capitale"; se è vero, come ha scritto un testimone fin troppo entusiasta delle glorie locali, che "i portici di piazza Castello" si trasformano in una "ribalta di dei e semidei": è allora inevitabile che, in questo "cielo artificiale", risplenda anche "l'astro luminoso" di Gozzano. Il figurino elegante di Guido fa un bel vedere sotto questi portici, affollati di meraviglie, il suo profilo di dandy trova una giusta cornice negli scenari di cartone ammucchiati nei teatri di posa. E ancora, questo figurino respira aria di casa, in un ambiente nel quale si muovevano ormai disinvolti amici vecchi e nuovi, da Omegna ad Oxilia, a Camasio, in un ambiente nel quale faceva spicco, se non altro nella riduzione famosa e fortunata della Cabiria, il nome di D'Annunzio, in cui trionfava Lyda Borelli, proprio in questo 1913, protagonista acclamata di Ma l'amor mio non muore.
La leggenda di Gozzano cineasta crea un po' di confusione; ma soprattutto, sbagliando clamorosamente le date, disperde anche le poche tracce del vero. Accade così, in questa leggenda, che nel 1913 Gozzano realizzi un film sulle farfalle, al quale aveva invece semmai collaborato nel 1911. Accade così che sia "accettato a far parte dell'ufficio soggetti di Ambrosio", per il quale non si limita a dare soltanto spunti e trame di film, ad alto compenso, ma scrive addirittura "di suo pugno" una riduzione de La Rafale. Accade così, per un naturale processo di estensione, che a Gozzano stesso venga attribuita la versione cinematografica della Cabiria dannunziana.
Gozzano, questa volta, contribuisce, anche lui, ad alimentare la leggenda, fin dal 1910, quando rilascia a Carlo Casella un'intervista. In questa intervista Guido è ritratto sullo sfondo della "suggestiva Esposizione di Arte femminile, nei locali della Mole Antonelliana", ed è in compagnia di un'Amalia quanto mai decorativa, nel contrasto tra il "nero velluto" dell'abito e il "bianco opaco" del volto. Gozzano parla di cinema, annuncia il suo esordio ("Ho accettato con piacere di rivelare le mie fantasie in una pellicola vertiginosa"), ma fa, soprattutto, il moralista. Dice che è tempo di "opporsi alla volgarità" di "speculatori indegni", che è tempo di usare meglio "il mezzo più economico ed immediato per educare le masse, per infondere un fine estetico e morale". Proprio per questo si è mosso:

Ho ridotto per cinematografo i temi più originali del mio volume di fiabe; fiabe, ripeto, per grandi e piccoli, sceneggiate con grande sintesi di trama e scaltrezza di effetto. I soggetti sono di mia completa invenzione- ogni episodio sarà alternato da pochi versi semplici e concisi, a commento della vicenda che segue. E’ cosa che ho fatta con grande amore e con grande diletto, e ogni pellicola, col suo quadro favoloso e il suo commento in versi, mi è cara come un mio lavoro letterario, e non esiterò a firmarla e a tutelarla come i miei volumi di prosa e di poesia.

Gozzano amplifica, a dismisura, recita come gli è consueto, ma non inventa dal nulla. La stessa rivista, che aveva pubblicato l'intervista, porta infatti nel numero del primo luglio 1911, un annuncio della casa cinematografica Ambrosio, la quale dà imminente l'uscita di Solo al mondo, "la storia commovente di Piccolino, il minuscolo eroe randagio per il mondo", usando pressappoco le stesse parole usate da Guido.
Il particolare risulta importante, dal momento che il problema va ingarbugliandosi. In opposizione alla leggenda di Gozzano cineasta infatti abbiamo, questa volta, anche una controleggenda. L'alfiere più accanito di questa controleggenda pare autorevole: è Arrigo Frusta, "capo ufficio dei soggetti alla Società Ambrosio", tra il 1908 ed il 1915. Nei suoi Ricordi di uno della pellicola, Frusta fa piazza pulita ed esclude Gozzano quasi del tutto come "autore di cinematografo" regalando al lettore soltanto qualche aneddoto in più. Come capo dell'ufficio soggetti, da Ambrosio, Frusta dice d'essere stato, in realtà, capo di se stesso. E vero, confessa, spunti, suggerimenti giungevano a "corbelli", e via via, con il trascorrere del tempo, anche da "riottosi scrittori", che si sentivano attratti "dal luccichìo della pellicola". Fra essi, dunque, pure da Guido Gozzano, che arriva negli studi di Ambrosio nel 1911, presentato dall' "amministratore generale", destando una grande "curiosità, specie nel clan delle donnette".
Attenzione ai dettagli di questo racconto velenosetto "Dal 1911 al 1913 altre volte lo vedemmo. Assisteva alle riprese, avvicinava le belle attrici, s'interessò ai leoni di Scheneider e alle scimmie del Farandola". Gozzano, da principio, porta anche "schemi di soggetti", ma non sono gran che e si busca rifiuti. Perciò, a poco a poco, dirada le visite e nello studio di Frusta entra molto poco, per sparire del tutto, dopo il 1913. In conclusione: "L'opera del poeta cineasta si riduce a ben poca cosa: a un soggetto di 130 metri La Storia di Piccolino, girato dal Vitrotti nell'anno 1911". In quanto alla Vita delle farfalle, essa è tutta di Roberto Omegna e in nessun modo di Gozzano. "La prova della mia asserzione", scrive Frusta, "è che la Società Ambrosio, quando vinse con le Nozze d'oro e La vita delle farfalle il gran concorso internazionale del 1911, donò a Omegna, a Luigi Maggi e a me una bella medaglia d'oro. Nessuno seppe mai che pure il Gozzano l'avesse ricevuta". Si sente, nelle parole di questo testimone, dell'acredine: quasi un eccesso di verità. Ma i fatti sono fatti e quanto riguarda, in particolare, La Vita delle farfalle, trova una puntuale conferma in un'intervista del 1913 ad Omegna, il quale racconta, nei dettagli, la realizzazione di questo documentario, ma di Gozzano non fa nemmeno parola.
Il caso, a questo punto, parrebbe chiuso, tanto più per la Vita delle farfalle. Ma lo riaprono due documenti. Il primo è una letterina di Guido, proprio ad Omegna, nella quale il poeta dà conto della "raccolta discreta" di insetti, fatta in "campagna". "Sabato spero di averne a sufficienza per portartele a Torino", dice, e aggiunge: "I bruchi non li trovai ancora, ma ho certa speranza di scovarli quanto prima". La lettera è del 20 luglio 1911 e le date (per una volta tanto) coincidono: Gozzano, anche solo come fattorino entomologo, è dentro il film. Ma c'è un secondo documento, e lo si trova nelle pagine del "'Bollettino Ufficiale dell'Esposizione Internazionale di Torino" del 17 ottobre 1911: riporta la notizia del premio attribuito alla Vita delle farfalle, e del film dà un "indice" e I' "argomento". Questo "argomento" ha una aderenza visibilissima con il testo delle Epistole entomologiche.
Frusta, che fu davvero capo dell'ufficio soggetti di Ambrosio, ed Omegna che di Ambrosio fu regista portano a zero la leggenda di Gozzano cineasta. Ma è uno zero che non può persuadere, anche perché una lettura dell'epistolario, attenta ai particolari, dà altre prove. Numerose sono qui le testimonianze: ma non tutte di ugual peso. Il pericolo è quello di lasciarsi coinvolgere dal gioco di Guido, che, quando scrive ad amici e colleghi, tende sempre ad amplificare ciò che fa o che ha in proposito di fare. Gozzano esagera sicuramente, quando nel Natale 1911 dice a Maria Borgese (la moglie del critico da lui prediletto) di "essere occupatissimo in cinematografia", e parla della propria passione per questo "strano mestiere", che lo costringe "ad esplicare in un'industria lucrosa ed attivissima le poche attività" del suo spirito, insanabilmente puerile".
Ma un conto sono le dichiarazioni ad effetto nelle lettere agli amici, e un conto sono invece gli incisi occasionali nelle lettere ai familiari, con i quali barare non serve, perché c'è, immediata, la verifica dei consuntivi. Ed allora, in questo caso, le testimonianze diventano attendibili. Qui mi riposo, ma non tralascio Ambrosio e qualche giornale. Ho mandato varie films e credo che Ambrosio non avrà a pentirsi d'avermi conservato l'impiego", scriveva Guido ad Eufrosina Giordano, da San Francesco d'Albaro il 23 gennaio 1912, prima di partire per l'India. Usa, impropriamente, il termine "impiego": ma è improbabile che inventi, dal nulla, una realtà di lavoro. E così accade nella lettera indiana del 26 marzo, dove ravvisa - come si è visto - un pericolo al proprio "ascendente", ed alla sua "indipendenza" con Ambrosio, nell'intromissione del fratello Renato. Un pericolo che appare scongiurato, ed anzi superato con vantaggio, se si dà credito alla battuta che cade nella lettera da Sturla,del 27 luglio 1913, dove Guido dice di "scrivere qualche film", proprio con l'aiuto del fratello minore.
Il capitolo dell'attività cinematografica di Gozzano appare dunque tutt'altro che chiuso, nonostante il secco colpo di spugna di Frusta e di Omegna. Rispetto alla leggenda che lo fa, con entusiasmo troppo facile, "cineasta" a pieno titolo, questo capitolo va certamente ridimensionato, soprattutto per la qualità del lavoro. Non c'è dubbio che l'attività per il cinematografo abbia, quasi esclusivamente per Guido, un obiettivo di lucro- non c'è dubbio che costituisca un'alternativa di lavoro più conveniente a quella per i giornali: perché meno faticosa e più redditizia, forse, ma soprattutto perché anonima e quindi più disimpegnata. Gozzano dice di scrivere "qualche film": l'espressione è generica, ma fa pensare. a "riduzioni letterarie" dei soggetti, a compilazioni di didascalie, piuttosto che a ideazioni di film. Questo tipo di lavoro potrebbe essere sfuggito ad un testimone, distratto in tale prospettiva, come Omegna, occupato più nel lavoro di esecuzione, che di preparazione del film; potrebbe anche essere ignorato, con noncuranza, da un testimone non poco fazioso e non del tutto attendibile come Frusta.
Gozzano rientra dunque nel cinema. Anche i paladini della controleggenda, del resto, lo dicono presente, fra il 1911 ed il 1913, nei teatri di posa, e comunque nell'ambiente. Un'attenta studiosa del cinema muto come la Prolo lo indica, con sicurezza, autore almeno di una sceneggiatura; alcune testimonianze epistolari sono certamente credibili.
Almeno per ora la leggenda di Gozzano "cineasta" implicato con il "si gira" non regge: ma non regge neppure la controleggenda. Guido lavora in disparte, per il cinema, con stanca routine di compilatore: lavora forse unicamente per bisogno, ma lavora.


5. In vendita, con qualche truffa

La storia di Gozzano cineasta rimane una storia segreta, proprio perché il suo rapporto con il cinema è esclusivamente, fino al momento del San Francesco, un rapporto di lavoro "nero", una fonte anonima di guadagno. Iniziata con qualche entusiasmo, nel 1911 questa attività è già stanca routine, stracco lavoro compilativo nel 1913, quando cessa ogni collaborazione giornalistica. Si è già detto, infatti, che Gozzano era partito per l'India con due tessere da giornalista. E si è anche detto che di queste tessere non ne fece nulla. Anzi, proprio in India, Guido formula un deciso proposito di non scrivere "sui giornali mai più". Il 1912 ed il 1913 tengono rigidamente fede a questa promessa. Ma non il 1914; e c'è una ragione.
Esiste, nella concretezza di eloquenti documenti, un problema economico in casa Gozzano, la cui organizzazione, per la forzata inefficienza della signora Diodata, è complessa e soprattutto costosa. L'intero carteggio di Guido con i familiari, dal 1913 al 1916, batte, talvolta anche patetico, sul chiodo fisso dei "quibus" da far durare il "più a lungo possibile" (sfruttando magari, "in campagna" il "vantaggio economico sulla vita cittadina"), dei tempi "tanto squattrinati": le lettere insistono molto spesso sul resoconto paziente di piccole economie, di attente valutazioni persino dei centesimi.
Accanto alle lettere ci sono poi i taccuini privati di Guido, che, proprio in questi anni, si fanno fittissimi di cifre. Non è possibile interpretare questa selva di numeri, perché le indicazioni esterne sono scarne: ma non è difficile immaginare dietro di esse il puntiglio, quasi ossessivo, di Gozzano a contare, la sua minuta angoscia di sottrarre e di dividere, la sua rara gioia di addizionare e di moltiplicare. Può dipendere dal caso che fra le carte di un poeta rimanga un documento anziché uri altro. Ma è un caso davvero bizzarro che fra i quaderni di Guido restino, estranei alla sua poesia, soltanto queste piccole relazioni d'economia domestica. Sono taccuini prevalentemente del "dare": ma insieme ad essi c'è pure qualche raro, e luminoso, documento dell' "avere". Ecco a allora, quasi trionfanti, due estratti-conto di Treves sulla vendita dei Colloqui. Le date sono quelle del 31 dicembre 1914 e del 30 giugno1916. Le cifre segnate sono modeste, ma non trascurabili: lire 313 e venti centesimi, lire 237.
Le cose sono andate dunque così. C'è stato un boom di vendita nel 1911 (intorno alle duemila copie), poi, giù giù negli anni, quella che si direbbe una discreta tenuta di mercato. A tirar le somme, I colloqui hanno portato in casa Gozzano quasi 1700 lire. Abbastanza perciò, se si tiene conto dell'intensa attività giornalistica del 1911, da consentire a Guido, nei due anni successivi una pausa di prolungata pigrizia. Ma nel 1914 la piccola scorta è esaurita, né Gozzano può aspettarsi gran che dai Tre talismani appena pubblicati da un editore minore. Nel 1914 Guido è costretto a rivedere la sua pregiudiziale avversione ai giornali: deve farsi i propri conti e badare al concreto. Si rifà "gazzettiere" e quando ricorre alle riviste letterarie lascia da parte il prestigio, il vecchio tabù dell'immagine pubblica, e mira diritto al compenso.
Le primissime lettere del 1914 sono dirette a Marino Moretti, parlano "subito e soltanto d'affari": e ne parlano in modo esplicito, quasi aggressivo. Moretti lavora in provincia, frequenta redazioni di riviste eleganti. In quest'anno collabora alla "Grande Illustrazione" di Pescara, ad "Aprutium": riviste magari non di grido, ma sostenute da signori che pagano bene. Va da Gozzano per lettera a chiedere collaborazione, e Guido capisce subito. "Ho pronto un gruppo di poesie che destinavo alla Nuova Antologia. A questa manderei invece una prosa e le poesie le riservo dunque alla Grande Illustrazione". Fra parentesi aggiunge "compenso £. 100", fulminante. Poi sottolinea: "Attendo per la decisione ultima - che urge - la tua pronta conferma". La pronta conferma arriverà e Gozzano, con un cambio di programma, per "trattare d'amici", anziché le liriche promesse (che non sono "ottime", e in parte "già note") manda "un brano molto significativo" delle Farfalle: cioè quanto ha "di più prezioso e di più inedito". Ci sarà un intoppo, i versi sono forse troppo pochi, per le cento lire richieste. Moretti, con diplomazia, chiede qualche cosa di più. Guido risponde secco, recalcitrando su questo "criterio a staio" della rivista. Cede, pavoneggiandosi come "benefattore", ma precisa: "Ti obbedisco con una docilità - sia detto perché tu non mi creda d'una dignità così malleabile - che non è nelle mie abitudini e in omaggio alla nostra intatta amicizia".
Gozzano grida tuttavia solo per tattica: sa infatti, benissimo, quali siano i compensi correnti. Sulla "Riviera Ligure", ben nota per la sua generosità, cento lire spettavano solo a Pascoli, con tutto il peso del suo prestigio: agli altri, più giovani poeti, anche molto meno della metà. Sull' "Illustrazione Italiana", nel 1911, Gozzano spuntava non più di quindici lire a colonna. Perciò, passata questa breve burrasca, Guido si dichiara "lieto di collaborare ancora" con Moretti: e rientrando nei ranghi, si dimezza il compenso, quasi con signorile noncuranza. Dietro a questa e ad altre trattative economiche, non c'è più tuttavia una spensieratezza euforica di gioco, c'è anzi l'affanno, la tristezza di un reale bisogno. Ed in tale prospettiva di una ricerca accanita di soldi, si giustifica la ripresa di una collaborazione continua a riviste e giornali. Gozzano ripercorre strade già praticate: torna a pubblicare sul "Corriere dei Piccoli", sulla "Lettura", sulla "Donna", con frequenza rilevante. Ma si apre anche altre vie: prova, a Bologna, sul "Resto del Carlino"; approda finalmente alla "Stampa", e sul "massimo foglio" torinese piazza, nel 1914, gran parte delle sue prose indiane.
C'è una fretta eccessiva in questo Gozzano di nuovo giornalista, che porta a qualche incidente. Sulla "Stampa" Guido sta attento; nelle lettere indiane contrabbanda vecchie e recenti letture, si fa prosatore parassita di pagine altrui, ma con misura: nel plagio conserva ancora un suo garbo. Sul "Resto del Carlino", invece, non si dà un limite: gioca subito d'azzardo bluffando, senza curarsi del rischio. Si affida alla fortuna e in un elzeviro intitolato L'unica fede spaccia per sue, pagine tradotte da Le double jardin di Maeterlinck. L'imbroglio è immediatamente scoperto e nasce un piccolo "scandalo".
L'elzeviro di Guido appare il 29 gennaio 1914. Il primo febbraio, velocissimo, un "formichiere" della "Gazzetta di Venezia" scopre il plagio: fa nomi e cognomi, parla con ironia delle "distrazioni di un poeta". Due giorni dopo, un redattore del "Giornale del Mattino", concorrente a Bologna del "Carlino", spara senza pietà sull'autore dei Colloqui e sul quotidiano: non parla più per metafora di "distrazione", ma pronuncia un'accusa esplicita di plagio e infierisce sull' "irresistibile poeta sentimentale e démodé", vezzeggiato come un "bibelot", dalle "signore di tutta Italia". E’ un grave infortunio, che lascia il segno: la firma di Guido Gozzano difatti non apparirà più, di qui innanzi, sul "Resto del Carlino". I taccuini dell' "avere" sono dunque privati, all'improvviso, di una possibile voce nuova.
Non è il solo, né il più grave incidente nella storia malinconica di questo spregiudicato poeta in disarmo, costretto a farsi "mercante". C'è un altro episodio, ancora più clamoroso. E’ avvenuto sulla "Riviera Ligure", qualche mese prima: ed è di nuovo un infortunio, che interrompe bruscamente una collaborazione durata, ininterrottamente e senza problemi, dal 1909 al 1913. Si tratta di un caso, un po' squallido, di compravendita d'un sonetto. Anche qui compare un "formichiere", ed è un "formichiere" di rango: si tratta del poeta Ceccardo Roccatagliata Ceccardi, collaboratore con minore fortuna (e minore guadagno) della stessa rivista. Ma andiamo con ordine.
Nel numero del marzo 1913 della "Riviera Ligure" appare un mediocre sonetto, dal titolo La statua e il ragno crociato: la firma è di Guido Gozzano. Ceccardo ha appena ricevuto da Mario Novaro, titolare di un oleificio di Imperia e direttore per hobby della rivista, una lattina d'olio, a compenso di qualche suo verso. Dunque, legge quel sonetto, ricorda, sobbalza, consulta un "volumetto" di poesie di Giuseppe De Paoli, prende carta e penna e scrive al Novaro. Ringrazia dell'olio ("buonissimo"), propone suoi nuovi versi, già pronti per un'altra lattina, ma si dice intanto "tormentato dalla nevrastenia". I suoi nervi, appunto, sono scossi dal vedere un sonetto di De Paoli, suo "giovane amico di Genova", firmato da Gozzano. Cos'è stato? Un "equivoco"? Com'è potuto accadere? Lui, a buon conto, il proprio dovere l'ha fatto. Ha avvertito Novaro ed ora aspetta sereno. Novaro, lo si è detto, pagava bene: e a Gozzano, in particolare, non mandava soltanto le lattine dell'olio, ma anche biglietti di banca. Quindi, come è giusto, all'originalità di quello che pubblicava, ci teneva, tanto più alla autenticità. Lascia in pace, per ora, l'assorto poeta dei Colloqui e interpella De Paoli. De Paoli corre, come può, ai ripari: cioè scrive subito al "Ceccardo carissimo", tentando le vie brevi. Si è trovato in qualche difficoltà economica, ha avuto problemi-, insomma quei versi maledetti, insieme ad altre cose sue "di poca importanza", li ha "ceduti": "o per parlare più chiaramente li ho venduti"', dice schietto. Chiede il silenzio, invoca il "segreto" e conclude con un "amen", che vorrebbe essere eloquente. Con Ceccardo, De Paoli implora; con Novaro tenta l'avventura: c'è affinità tra i suoi versi e quelli di Guido Gozzano, ma è una semplice "trascurabile analogia di argomento". Ora non sa dove pescare il proprio sonetto, frugherà fra le carte, cercherà, manderà per evitare, così dice, "ulteriori parole che potrebbero tornare incresciose alla fraterna amicizia che lo lega al geniale e nobile poeta dei Colloqui"'. Non è l'amen rifilato a Ceccardo, ma è, anche questo, un garbato invito a non procedere.
La manovra non riesce, perché Ceccardo continua a ringhiare: o è davvero un paladino della lealtà professionale o ha sullo stomaco le sue lattine dell'olio, quando pensa alla fortuna ben remunerata di Gozzano. Fatto sta che il 20 aprile piazza il suo colpo più basso, per "andare in fondo a quella faccenda", come scrive in una lettera avvelenata a Mario Novaro. Dapprima fa sfoggio di una memoria prodigiosa: sottolinea, nella copia di Gozzano, la sostituzione di un aggettivo "volgaretto anzi che no", rispetto all'originale di De Paoli. Poi produce, scorretto, la lettera segreta dell'amico, che dà tuttavia solo in prestito; la rivuole, così dice, per poterla poi conservare nel suo "archivio". Ceccardo pensa dunque già ai posteri; per ora fa del moralismo: "Che razza di letterati ha l'Italia mercé la gran cassa dei Treves! E mi vergogno di continuare: meglio la mia miseria!".
Si potrebbe osservare che Ceccardo, in appendice alla propria lettera, torna a proporre i suoi versi, va di nuovo a cercare un'altra "lattina d'olio". Ma questo riguarda Ceccardo, non riguarda Gozzano. Novaro, questa volta, è costretto a disturbare il poeta dei Colloqui: e Guido così messo alle corde, non ha altra via d'uscita se non una prova di forza. Gozzano, costretto, mente sfrontato, ed impegna la propria parola d'onore. "La statua e il ragno crociato fa parte di una collana di sonetti inediti miei, assolutamente miei. Questo posso affermare sulla mia parola d'onore, di fronte all'amico suo e di fronte a De Paoli anche amico mio", scrive; e De Paoli sottoscrive, mentendo a sua volta. Novaro, qualunque cosa ne pensi in cuor suo, si acquieta e chiude il 23 aprile, con fair play, la questione: passa sullo "strano abbaglio" di Ceccardo, e per conto suo dice di aver dubitato "solo di un giuoco per sé innocente ma che gli sarebbe rincresciuto".
Ci sarà un'appendice, giacché Ceccardo ha la testa dura; tutto sarà chiarito. Guido verrà smascherato e Novaro gli toglierà la collaborazione alla "Riviera Ligure". Di lì a poco, a conclusione di questa squallida vicenda, Gozzano scriverà a Moretti, con amarezza, sulla difficoltà delle amicizie e dei rapporti. "Ho avuto in questo tempo l'ultima delusione (non dall'arte, dalla vita) e mi sono staccato dagli ultimi uomini... ", dice accorato; e poi, con cinismo a noi ben intelligibile, osserva: "E’ bene che non ci siamo mai stretta la mano, mio caro Marino! Chi sa quali rispettive carogne avremmo, a quest'ora, scoperto in noi due! Ne sono certo". Carogna Gozzano si sente, comunque, anche al di là dell'illecito, anche al di là dei suoi tristi commerci segreti di compravendita, dei minuti contrabbandi di plagi, più o meno palesi.
Questo Gozzano degli ultimi anni sopravvive a se stesso, vendendosi, e ne è consapevole. Recita, mesto, la propria commedia, simulando, per decoro, l'inaridirsi della sua vena. E allora copia, improvvisa, imbroglia, per non lasciarsi andare del tutto. E’ un poeta che rivende anche merce usata, che, messo alle strette, sgombra i propri cassetti. E’ un letterato in liquidazione, che prova, maldestro, nuove vie e che, mentre nulla o poco produce, continua a parlare, nelle lettere, sul proprio grande "da fare", promettendo, ma a vanvera, il suo "nuovo" futuro di poesia.


6. In liquidazione, con qualche compromesso

Il Gozzano degli anni 1914-1916 è uno scrittore in disarmo, è un poeta stanco che limita anche le proprie letture. La stessa sua biblioteca non registra più alcuna acquisizione importante, in questo periodo, ma soltanto qualche "omaggio" casuale. Le lettere offrono pochissime notizie di rilievo: lo studio della letteratura inglese ("Quanta, quale bellezza!"), l'appassionato indugio sulle poesie indiane di Asvaghosa. "Sono un vagabondo senz'anima, che non vede e non sente", dice un personaggio d'una novella gozzaniana di questi anni (Alcina). In una simile situazione di vagabondaggio distratto, sembra nascere tutta la nuova attività giornalistica di Gozzano. Ed è quasi soltanto un'opera d'intrattenimento: in cui al vecchio "gazzettiere", a suo modo partecipe, del 1911, si è sostituito un elzevirista più scaltro, ma freddo, che ripesca, dai "cartoni" del proprio passato poetico, qualche motivo gradito al pubblico e lo dilata, lo spezzetta, lo moltiplica, in un esercizio meccanico di abilità artigianale.
Riappaiono così, rimessi a nuovo da un rapido lifting, antichi figurini. Ed ecco elegantissima, "abbandonata nell'angolo" di una carrozza, "rifugiata in una immensa volpe nera policaudata", fasciata da una "gonna breve e succinta", "il piede minuscolo nella calzatura maschile", la quarantenne piacente del Bel segugio: i suoi occhi sono "iridi d'onice fosca", ora "imperiosamente velati dalle ciglia abbassate", ora dolci di una "tenerezza immemore". Attorno a lei, fa la ronda un "bellissimo": ed è il figurino di un "centurione romano ingentilito dall'eleganza moderna, stilizzata da un sarto londinese. Ventiquattr'anni, ricco, buon ragazzo, molto sciocco, molto vano, molto sensuale: adoratissimo dalle donne".
Gozzano scrive, per lo più, su giornali torinesi. E’ giusto, perciò, che rispolveri gli antichi scenari sabaudi dei propri versi. E va allora nella Casa dei' secoli, nel Palazzo Madama, che è "come una sintesi di pietra di tutto il passato torinese", per inebriarsi "della poesia di due millenni", per dimenticare, "come in un'oasi risparmiata dal tempo" 5 la vita moderna che pulsa all'intorno, nelle "rotaie corruscanti", nel "balenìo delle lampade elettriche", nel "rombo delle automobili, dei tram, della civiltà che passa ed incalza". Oppure Gozzano, ricordando la Marchesa di' Cavour, si abbandona ad una nostalgia del tempo trascorso e rivisita, in una "mezz'ombra crepuscolare", la "malinconica Torino del seicento", nella sua "meschinità quasi ancora medioevale, con le sue mura, le sue torri, le sue porte, con la sua piazza del Castello dagli edifici miseri e grigi che ancora attendono di fiorire al genio architettonico di Filippo Juvara!".
Quasi una città crisalide, questa Torino secentesca, che attende di divenire farfalla: ed il motivo più vero di queste rievocazioni ripetute è proprio questo. Di fronte a Palazzo Madama, di fronte di nuovo alla Casa dei secoli, la fuga di Guido è verso la "notte dei tempi", in una storia che "non ha più date e non ha più nomi", in uno spazio allontanato, sprofondato, nel quale "il nostro sogno prende non so che tinta crepuscolare livida e paurosa, non priva di un fascino indefinibile: il fascino delle cose non certe". In Torino del passato, c'è una "Piazza Castello settecentesca, quasi simile a quella d'oggi e pure tanto diversa": è illuminata, questa piazza, da un sole non vero, "il sole che illumina le vecchie stampe e le cose che si raccontano..."; l'assenza "di lastrico e di rotaie, di globi elettrici e d'intrico metallico, d'insegne e di grida murali, le danno un aspetto spoglio di cosa mortaÖ".
Gozzano fa il verso a se stesso. Tutto rientra in quest'opera paziente, ma senza entusiasmo, di buon artigiano. Il riaffiorare dei ricordi infantili, una riedizione esotica delle "buone cose di pessimo gusto 5 2 ; altri elenchi: il Trocadero con le cascate "multiple, di cristallo a spirale", la torre Eiffel, in oro, un albero carico di colibrì, che si metton "a trillare agitando le ali", un tempietto greco con carillon e ballerini danzanti. Triste, ma non patetico, è questo declino di Guido Gozzano. Non c'è più in queste pagine, il "gazzettiere", magari miope, ma felice e chiassoso, del 1911: questo è un giornalista più oculato, ma più grigio, che cerca di fare le cose per bene, risparmiando fatica, che vuole accontentare chi lo paga, dando ciò che gli è richiesto, che attende rassegnato la propria fine e intanto, come può e come deve, lavora di penna.
Al Gozzano giornalista capita di dover scrivere i suoi elzeviri in tempo di guerra. Guido fa anche questo e si propone come decoratore scrupoloso dell'opinione più condivisa: trasformista elegante, si adatta, con docilità, ai gusti del pubblico. Nel settembre del 1914 i giornali raccontano dell'arrivo, alle piccionaie della Società Colombofila di Milano, di un "colombo di Liegi". La bestiola è "spennata e insanguinata" ed ha vagato ferita "non meno di duemila chilometri". Gozzano, pronto sulla "Donna", detta sei quartine per questa Messaggiera senza ulivo: intenerendosi in un facile, retorico, pacifismo che non fa sicuramente storia. Due altri pezzi giornalistici del 1914, Guerra di spetri e La belva bionda, costituiscono altrettante prove sicure, in questo anno, di una radicata fede neutralistica di Gozzano.
In Guerra di spetri siamo in un sanatorio e si accende una babilonia di discorsi stizzosi sulla guerra, un conflitto di "parole", di "sogghigni di sdegno", finché "la tosse crepita, scoppia esasperata, tragico richiamo alla fine imminente, alla vanità d'ogni umana contesa". La condanna va sul generale, ma non tralascia particolari. Quando, nel sanatorio, arrivano i giornali, è un coro generale di vittoria: "I Francesi, i Russi, gl' Inglesi" avanzano "sui Tedeschi e sugli Austriaci; e gli Austriaci e i Tedeschi" avanzano "sugli Inglesi, i Russi, i Francesi". L'assioma "dell'impenetrabilità molecolare è sfatato", commenta Gozzano: "Tutti sono vittoriosi". Così nella Belva bionda si apre una "lista stucchevole": "Lovanio è stata distrutta, la cattedrale di Reims bombardata, il Belgio profanato, annientato, il Kronprinz ha manomesso i castelli gentilizi, ha scelto di sua mano [... ] gli arazzi, i monili, i quadri, i bibelots che valeva la pena di spedire a Berlino". Ma non c'è spazio ad uno "sdegno" di parte, perché "i Russi hanno fatto in Germania ciò che i Tedeschi hanno fatto in Francia, ciò che Francesi ed Inglesi avrebbero fatto in Germania se avessero avuto la forza di penetrarvi".
Il tempo di riflessione neutralísta è però di breve durata in Gozzano. Tra il dicembre 1914 ed il luglio 1915 non c'è traccia di alcuna sua pagina sulla guerra. Non è un caso. In questo spazio di tempo il dibattito sull'intervento è acceso, la polemica scoppia furiosa sui giornali e sulle piazze. Ed allora Guido si astiene: attende il consolidarsi di un'opinione comune, di cui farsi, con decoro, portavoce. Quando l'originaria ispirazione neutralista e giolittiana della "Stampa" si spegne e si inaugura la nuova linea di decisa adesione alla "politica nazionale" del governo Salandra, Gozzano è pronto. Riprende, solerte, il discorso bruscamente interrotto sulla guerra e confeziona, accondiscendente, edificanti racconti patriottici.
Nasce così La scelta migliore, dove la moglie di un volontario partito per il fronte supera le tentazioni dell'adulterio per ricongiungersi, trionfalmente, al marito. Nasce così Gli occhi dell'anima, dove una giovane donna, deturpata dal vaiolo, ritrova in zona di guerra il fidanzate che ora è cieco, e approfitta di questo singolare miracolo. Ma accade persino (in Un addio) che un perfetto dandy, non annoiato del mondo, si converta ad uno spettacolare amor patrio. Tito Vinadio, "agiato" abbastanza per vivere in un "ozio indipendente", un poco artista e "sognatore", viaggiatore e donnaiolo, "sempre con il senso della giusta misura", fedele alla "teoria del massimo piacere col minimo sforzo", figlio del suo tempo "senza ideali e senza mete", capisce alla fine pure qualcosa. Trova nella guerra un' "atmosfera eroica", sente "la bellezza ideale dell'ora", e parte quindi "volontario con lo stesso trasporto col quale, in altri tempi, s'accingeva a un bel viaggio con una bella amica". Questo esercizio d'ossequio, si ripeterà pulito senza calore, con giusto equilibrio. Gozzano è come in disparte, anche se firma queste pagine; appare taciturno, anche se scrive. Il suo unico vero problema sembra soltanto quello di portar avanti, fino in fondo, la sua rassegnata routine di uomo di lettere.


7. "San Francesco"

Al di là del lavoro giornalistico, la creatività di Gozzano, negli ultimi anni, si riduce pressoché ad un nulla di fatto. C'era stato, probabilmente, nel 1913, un tentativo teatrale, se a quest'anno, come indica il "Secolo" di Milano, può essere attribuito lo "scherzo in un atto" dal titolo L'ostessa delle due colombe. Senza tener conto delle poesie erotiche indiane, distrutte perché buone soltanto "per il cestino", come avrebbe scritto Gozzano a Zanzi, ci saranno ancora, tra il 1915 ed il 1916, i versi per musica, di cui dà notizia il carteggio con Silvia e Alina Zanardini: il Prologo, Carolina di Savoia, La culla vuota. Poco altro: e di minor conto.
L'itinerario poetico di Guido si chiude in pubblico, ancora, con qualche ostentata dichiarazione di vitalità. Così accade, allo scadere del 1913, quando, rispondendo ad un questionario sul "concetto ideale della bellezza femminile", Gozzano propone il modello della "Venere de' Medici", e si dichiara stanco "di snobismo", e nostalgico invece "di salute, di forza, di verità". "Non trovo tra le creazioni moderne dell'arte pittorica, plastica, scenica, letteraria l'ideale che sogno", dice Gozzano. Ed è come un preludio a quella sua lunga, anche se discreta requisitoria contro la "nuova" rumorosa poesia di questi anni, che Guido, di qui innanzi, svilupperà nelle proprie lettere. Una requisitoria di retro guardia, che è diretta contro gli "scioperati che fanno dell'anarchia metrica un pretesto di laida gazzarra" e che altro non sono che un' "orda di schiavi rivoltosi, senza forza di dominio, miserabili e buffi, nella loro ubriacatura". Una requisitoria, nella quale Gozzano ripropone le sue antiche "dolcezze" e "amarezze" per il bello stile, le proprie antiche ossessioni di perfezione.
In privato, invece, questo itinerario poetico si chiude in una malinconica nota di impotenza, dapprima e poi, in qualche sconsolata dichiarazione di rinunzia. E’, da principio, una "fase di abulia e di analisi spietata", una privazione totale di "sentimento", un dominio assoluto della "fredda ragione", a negargli il rinascere della vena poetica. E’, alla fine, una sensazione mortale di stanchezza. "Da tempo non faccio più nulla e - sintomo migliore ancora - non soffro di non fare", scrive a Silvia Zanardini, il 15 agosto 1915: "Ha ragione. Non c'è altro rifugio che l'Arte: e quando l'Arte ci ha stancati, una riposata e calma filosofia". La simpatia stessa che Gozzano dichiara nelle sue lettere a Renato Serra, dopo averne letto gli elogi critici, pare nascere da questo medesimo clima di sconforto, quasi che Guido, con distacco, guardasse a sé, come ad un poeta immensamente lontano:

Vorrei quasi che Ella non avesse scritto di me con tanta benevolenza perché queste mie righe concitate non fossero sospette di vanità lusingata. E vorrei che Ella conoscesse la mia arida selvatichezza, la mia spaventosa insensibilità, perché potesse dare alla mia simpatia un qualche valore! Quanta simpatia ho con Lei, caro Amico! Simpatia con Lei, nel senso etimologico di soffrire, di sentire ad un modo: nell'essere "vicini in tutto quel che più importa: nel leggere un libro e tollerare la vita". Lei è veramente la nostra espressione, ha scritto il nostro libro. Ha sortito da natura il dono di formulare con lucida precisione le cose che noi - suoi fratelli non critici - non possiamo dire, non possiamo, anzi, quasi pensare ma intuire, sentire soltanto. Per questo è il nostro rivelatore ed è fatalmente il critico del tempo nostro.

Con Serra, Gozzano dice che vorrebbe "camminare a braccetto", per potere con lui "parlare a lungo delle nostre care cose inutili; con le sorelle Zanardini che vanno recitando le sue poesie per l'Italia, Guido concerta, come se ancora avesse la vitalità del 1907 e del 1911, piani strategici, per tentare, così dice, di "loro giovare con qualche amicizia influente e competente". E propone allora, alle due volenterose, carte di presentazione per Domenico Oliva, "pontefice massimo della critica letteraria e drammatica", a Roma; per Giovanni Cena, il quale per quanto "molto brutto, gobbo, sdentato, sciancato", è pur sempre "direttore della Nuova Antologia"; per Diego Angeli, "critico d'arte, poeta, romanziere", ma anche "figura di gentiluomo", utile per un'entratura efficace nel "patriziato". Sono questi momenti patetici di nostalgia: piccoli diversivi, retorici, segni soltanto formali di una partecipazione che è ormai, a questo punto, quasi esclusivamente un atto meccanico.
Lo abbiamo già detto. La storia reale della poesia di Gozzano si è chiusa da tempo, con la risoluzione di lasciare incompiuto il quaderno delle Farfalle. I versi per musica che nel '15 e nel '16 Guido va compilando per le sorelle Zanardini sono unicamente un atto di amicizia, un gesto rassegnato di cortesia, verso chi ancora gli attribuisce un ruolo. Si fa strada, invece, pian piano, un altro tardivo interesse, in lui, che nasce dal lavoro di stanca routine per il cinematografo, e che dà, proprio negli ultimi mesi di vita, una nuova, brevissima luce di entusiasmo creativo a questo poeta finito.
I documenti sono pochi, ma molto eloquenti. La storia di Gozzano cineasta s'era interrotta nel luglio del '13, quando avevamo lasciato Guido, in Liguria, nell'atto di "scrivere" films, con l'aiuto del fratello Renato. Nel 1915, ci sono due novelle che danno, come assicura un esperto, una prova concreta della sua conoscenza "dell'ambiente cinematografico". Si tratta del Riflesso delle cesoie e di Pamela-film. Nella prima, è rappresentata la storia di una troupe che è diretta da un pittore fallito e da un'attrice respinta dal teatro: due "artisti delusi", non consolati dal molto denaro, perché - così dice Gozzano - "nessun bene terreno può consolare d'un ideale d'arte tramontato per sempre". Nella seconda si descrive, con brio, uno "studio": e qui, mentre riappare, ancora una volta, la figura di "un poeta famelico", sfamato "dalla Casa", si delinea anche un gioco caricaturale del perbenismo borghese, che nel mondo del cinema vede soltanto perdizione.
Nel 1916 appare Il nastro di celluloide e i serpi di Laocoonte. E’ uno scritto teorico che contiene una riflessione non banale sul cinematografo e che indaga, con modernità di prospettiva, anche il nuovo rapporto tra letteratura ed industria. Il punto di partenza, è vero, nega validità artistica al cinema.
L' "industria di celluloide" è detta figliuola "disonesta e fortunata" dell'antica tradizione dei cantori popolari; ma Gozzano riconosce subito dopo ad essa un valore intermedio tra l'arte ed il divertimento: il cinema è qualcosa di meno del teatro, ma anche "un pochino di più" delle "pietose turpitudini del caffè di varietà; sta, come intrattenimento, al di sotto della lettura, ma al di sopra delle chiacchiere inutili "del caffè o del club, con le sue riviste e i suoi amici annoiati".
C'è anche, in questo scritto, una considerazione personalissima. Nello studiare il rapporto tra cinema e arte, Gozzano si esprime con una metafora, nella quale si parla di crisalidi, di farfalle e di mosche. Il cinematografo, dice, è un'industria che ha bisogno dell'arte. E questo è un "fenomeno tragico e interessante": un fenomeno, aggiunge, che "ricorda quella mosca parassita che penetra nella crisalide delle nostre più smaglianti farfalle diurne, vi soggiorna, se ne nutre, pur non uccidendole, ma sostituendosi a poco a poco". Accadrà poi, conclude Gozzano, che l' "allevatore, in attesa", da questa crisalide, vedrà uscire "non la farfalla magnifica, ma una volgarissima mosca", la quale resta una mosca, e la farfalla, farfalla". Questa è autobiografia, autobiografia sconsolata. Gozzano parla qui, con tristezza, della sua profanazione di poeta. Ma è soltanto un attimo di rimpianto, al quale succede un adattamento. L'industria del cinema, tra le altre, è quella che più si sforza di far dell'estetica", dirà ancora Guido, quest'industria "raggiunge, qualche volta, un attimo fugace di vera bellezza".
Il nastro di celluloide e i serpi di Laocoonte appare sulla "Donna" il 5 maggio del 1916; è stato quindi, presumibilmente, scritto nell'aprile. In questo mese Gozzano ha già portato a termine il suo San Francesco e si prepara ad un debutto clamoroso, come autore, ed autore a pieno titolo, di un film. "Si deve decidere in settimana la film su San Francesco", scrive al fratello Renato, il 17 aprile, "e in tal caso sarei impegnato a presenziare per una ventina di giorni l'esecuzione, quasi tutta ad Assisi. Non so se sarà commercialmente fortunata, ma come opera d'arte comincia ad appassionarmi".
Non è un bluff, questa volta, e neppure l'amplificazione di un più modesto progetto. Nel 1916, sui giornali, circolano notizie false, che indicano Gozzano autore di film che non gli appartengono. Guido, in altre occasioni paziente o indifferente, non lascia correre, ora. Smentisce, sorridendo, una prima volta, nel febbraio, quando scrive a Silvia Zanardini: "Ho visto il mio nome figurare sotto una film che vedevo per la prima volta. Il mondo è buffo". Smentisce, più serio, in una seconda occasione, alla fine d'aprile, e dà notizie precise del proprio lavoro:

Sono occupato come non fui mai; ma è cosa di pochi giorni e non lavoro che roda l'anima; la pellicola è così lontana dall'arte! Ha letto il mio nome anche sul Corriere! Che buffa montatura per una film che io non conosco che per avere presenziato alla lettura, e della cui paternità non sono responsabile che per avere complimentato – sinceramente - il vero e unico autore, il prof. Chiosso.
Sono invece padre, e lo confesso non senza compiacenza, di una film che mi lusinga anche artisticamente. Non so se l'esecuzione cinematografica corrisponderà a quanto ho sognato io... ma dovrebbe riuscire una buona cosa.

Non solo. A dimostrare che il San Francesco non è semplicemente un progetto di film, a testimoniare dell'imminente esordio di Gozzano autore di una grandiosa film musicata", ci sono questa volta anche documenti oggettivi. Due preventivi della Gladiator-Film, "Manifattura cinematografica" di Ugo De Simone & C., con sede in Torino, in via Assarotti al numero dieci: ed una nota di spese, di un ufficio di copisteria. Il primo preventivo porta la data del 18 aprile 1916 ed è la copia di una circolare dattiloscritta e non firmata. E’ una richiesta di finanziamenti, appunto, per il San Francesco, la cui "riduzione letteraria del soggetto" sarà "apportata dal rinomato Poeta Guido Gozzano", mentre la "composizione musicale sarà opera del celebre Maestro don Fino". I metri della pellicola sono tremila. L'allestimento prevede quattro "artisti primari", quattro secondari e cento comparse, quindici giorni di lavorazione per gli "esterni", un mese per gli "interni". Al regista ("Metteur en scène") toccano tremila lire, altrettante sono previste per Gozzano e per Fino. Il totale del capitale richiesto per il finanziamento, è di cinquantamila lire: la caccia è aperta per dieci "carature" (cioè quote) di cinquemila lire l'una. Tre sono già sottoscritte dalla stessa casa cinematografica.
E’ un ben singolare destino, che la vita di Guido Gozzano, così spesso coinvolta nelle piccole cifre, finisca in questa prospettiva splendida dei grossi numeri. Il salto dai centesimi alle migliaia di lire però è terminato. I capitali richiesti dal primo preventivo arrivano presto: e nel maggio del 1916 c'è già una copia definitiva di contratto, che porta la firma di De Simone. In questo contratto, mentre si conserva il futuro per la "composizione musicale" ("sarà opera del celebre maestro don Giocondo Fino"), si usa il passato per la "riduzione letteraria del Soggetto" ("fu apportata dal rinomato Poeta Guido Gozzano"). Il documento è più protocollare: e porta novità ancora più vistose. Le "carature" necessarie al progetto sono già arrivate ed allora il preventivo è raddoppiato da cinquanta a centomila lire. Non più tre ma settemila sono i metri di celluloide previsti; le comparse diventano 250, gli attori primari rimangono quattro (ma si pensa ad un gran nome, perché i compensi sono più che quadruplicati). Così si allungano i tempi di lavorazione: venti, ora, sono i giorni per gli "esterni", sessanta quelli per gli "interni". E ancora, a Fino e Gozzano spetteranno quattro e non più tremila lire. Non basta. I due autori sono coinvolti negli incassi: a loro infatti andrà, così qui si dice, il trenta per cento dell' "utile netto".
Riassumiamo, facendo attenzione alle date. La lettera a Renato è del 17 aprile, il primo progetto della "Manifattura Cinematografica" è del giorno dopo. Il 22 Gozzano, nella lettera a Silvia Zanardini, dà per avviato il proprio lavoro; il contratto per il film è pronto nel maggio; nel giugno Guido ha già consegnato in copisteria il manoscritto, che è battuto in sei copie entro la fine del mese. Sono dati che si pongono in una successione veloce, che ha la rapidità dei progetti che vanno a buon fine. Gozzano pare davvero entrato nel giro buono delle cifre con molti zeri: ma ne è escluso, all'improvviso, da un ritorno violento del suo male. Come sempre aveva fatto le cose per bene: il copione del Sarì Francesco lo sta a dimostrare. Guido, lasciando da parte l'antica predilezione per il misticismo del "poverello d'Assisi", punta infatti sullo spettacolo, abbondando in miracoli, tradotti in giochi di luce, fa uso di "effetti di imbibizione gialla", di "fotogrammi mancanti", di "lampi a graffiatura di spillo": di "tutti i trucchi dell'apparecchiatore".
Il suo San Francesco diventa una star, taumaturgo più che beato, stregone piuttosto che santo: ma ciò non significa affatto che Gozzano manchi di stile. Il "poverello d'Assisi" ha una propria misura elegante. Quando è ancora il figlio di Bernardone, si muove in "un gaio decamerone", non "sguaiato quale immagina la tradizione popolare", ma "composto, elegante, ordinato come nelle pagine dei novellieri trecentisti e nelle tele dell'epoca". Quando è santo, sa circondarsi di una "povertà grandiosa". Guido è un perfezionista, anche con il nuovo linguaggio cinematografico: la vita di San Francesco si racchiude, nella sua sceneggiatura, all'interno di una cornice ben curata, che prevede, per esempio, una identità assoluta delle scene d'inizio e di fine.